Inviata da Danilo Falsoni – Da anni nella scuola italiana circolano parole magiche, ripetute come un incantesimo in grado di risolvere tutti i problemi di un’istituzione sempre più obsoleta, incerta sui propri fini e tormentata anno dopo anno da un’incoercibile ossessione burocratico-pedagogica: riformare, innovare, sperimentare, digitalizzare…
Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: riforme incomplete, cambiamenti continui, spesso improvvisati, sperimentazioni, progetti, innovazioni metodologiche e pedagogiche (tutte rigorosamente di matrice americana o anglosassone tipo flipped-classroom, debate, e-learning, tutoring, etc.), digitalizzazione a tappe forzate in quanto considerata la panacea di ogni problema, cambiamenti persino “fisici” (i banchi a rotelle, mentre ora stanno arrivando le aree didattiche a sostituzione delle aule-classe, la cosiddetta Dada) fanno poi puntualmente registrare un tracollo delle conoscenze e capacità cognitive essenziali dei giovani: prove Invalsi, Pisa, statistiche varie ci consegnano da anni il desolante quadro di una sorta di giovanile semianalfabetismo dilagante, a cui si aggiunge un analfabetismo emotivo e sentimentale – ingigantitosi ovviamente dopo
l’orrore dei lockdown – alla base dei numerosi episodi di teppismo e criminalità nei confronti dei docenti, nemmeno più supportati dalle famiglie, come accadeva un tempo.
Al di là di tutta la buona volontà innovatrice, questo è in realtà il risultato dell’imporsi di una scuola-azienda e di un’idea del sapere puramente utilitaristico-aziendalista, finalizzato esclusivamente all’inserimento nel mondo del lavoro, un sapere ridotto a saper-fare, a un mero addestramento pratico, avendo abbandonato la più ampia funzione formativa della persona, che passa, invece, attraverso conoscenze umanistiche e formazione professionale di base. E l’affondamento della cultura umanistica non può essere sostituito dal miscuglio di propaganda e indottrinamento generico fornito da quel monstrum di “Costituzione e cittadinanza”.
Tutto ciò sullo sfondo dell’unica vera riforma da sempre invocata dalla comunità docente ed educante in generale (mai però dalla pedagogia ufficiale), l’unica che in questo grottesco e nauseante marasma di idiozie burocratiche e pseudo pedagogiche nessun legislatore si è mai sognato di proporre e portare avanti nonostante i presunti costi (i fondi ci sono solo per le scemenze burocratiche o le innovazioni ridicole e inutili): la riduzione del numero di alunni per gruppo classe a un max di 15-18! C’è bisogno di spiegare le ragioni per cui con un numero di studenti così ristretto sarebbe possibile qualunque azione didattica modellata su ogni discente?
Altro grande problema è che in tutte le proposte che vengono formulate nell’ambito del sempre più spinoso dibattito sul declino e affondamento della scuola, si perpetua l’idea dell’abbandono della sua finalità di trasmissione ed elaborazione di conoscenza, ormai svalutata a mero e inutile supporto nozionistico, sostituita dall’onnipresente e pervasivo concetto di
competenza: doppio errore, perché da un lato si svaluta quello che dovrebbe essere (ed è sempre stato) un valore – il conoscere, il sapere come esito indotto dallo stupore, dalla meraviglia, dall’interesse per il mondo e la realtà tutta – base fra l’altro dell’autorevolezza e del carisma del docente, oggi sulla via di essere ridotto a banale “facilitatore” del discente, e dall’altro lato non si comprende come sia possibile elaborare queste mitiche “competenze” senza un solido fondamento e bagaglio di conoscenze effettive: e con questo termine si intendono nozioni, dati “compresi” e rielaborati attivamente dal soggetto discente.
Occorrerebbe allora – proposta da brivido per il mainstream mediatico e il politicamente corretto – smettere di criminalizzare la cosiddetta lezione frontale, calunniata e vilipesa come arida e passiva trasmissione di saperi obsoleti, quando tutti sappiamo che invece essa nella pratica didattica si vitalizza attraverso il feedback operativo dei discenti con esercitazioni, discussioni,
ampliamenti personali e le verifiche stesse con valutazione, senza la quale – con buona pace del buonismo egualitario ormai dilagante – non vi è apprendimento!
Pertanto, qualunque innovazione didattica a nulla varrà mai se non basata – come un edificio che voglia solide fondamenta – sulle conoscenze specifiche disciplinari. Perché senza conoscenze, cioè senza quei fondamenti di nozioni e abilità, che poi la società e il mondo del lavoro trasformeranno in competenze declinate secondo le istanze produttive contingenti, si elaborano solo capacità fragili, improvvisate e destinate a non durare, in un desolante analfabetismo emotivo ed etico, e nemmeno alcuna autentica possibilità di selezionare criticamente le informazioni di cui ci inondano i media e Internet. Lo studio “matto e
disperatissimo” (erudito e nozionistico) che contribuì a rendere Leopardi un genio, lo dimostra!
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