di Paolo Mereghetti
Il documentario «Po», in arrivo nei cinema, prodotto dall’Istituto Luce sulla tragedia che costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case. I ricordi dei sopravvissuti
Non ci sono solo le guerre a sconvolgere la vita dei popoli. A volte è la Natura che distrugge ma i risultati sono simili perché trasformano gli abitanti in profughi, costretti a cercare altri spazi per vivere. È il messaggio che ci lascia il bel documentario «Po», in arrivo nei cinema, realizzato da Andrea Segre e Gian Antonio Stella e prodotto dall’Istituto Luce sull’alluvione che nel novembre 1951 costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case, sommerse dall’acqua. Allora non avevano la tv ma cinque operatori documentarono i fatti per quello che allora era il mezzo di comunicazione di massa, il cinema, e i suoi cinegiornali restituirono a tutto il Paese la dimensione immane di quella tragedia. Riprese che Segre e Stella hanno recuperato (e restaurato) per accompagnare i ricordi di chi allora era bambino e subì sulla propria pelle il destino del profugo. Oggi hanno tutti più di settant’anni, alcuni anche ottanta ma il ricordo di quei giorni non si è mai cancellato perché, se la logica dei soccorsi era quella di salvare prima i bambini, molti furono presi e separati dai genitori, rimasti ad aspettare i soccorritori successivi. Finendo spesso per dover aspettare anche un mese prima di poter essere ricongiunti a mamme e papà. Sempre che non fosse successo come a quelle 84 persone che salite su un camion per fuggire furono travolte da un’improvvisa onda di piena, annegando. E i ricordi di un figlio (vivo perché separato dai genitori e portato via prima) sono tra i momenti più strazianti del film: «Nessuno mi diceva niente, si vergognavano anche a parlarmi pur di non dovermi dire quello che era successo». Segre e Stella non fanno domande, lasciano che la memoria faccia il suo compito, aiutando lo spettatore con gli estratti dai cinegiornali i cui commenti stridono con il dolore dei volti muti. C’è chi ricorda anche con allegra impertinenza il braccio di ferro per un piatto di minestra col parroco anticomunista che l’aveva sentita cantare Bandiera rossa con le amiche. Ma c’è anche chi non ha dimenticato la fame della sua condizione di «emigrato» in Piemonte o il disprezzo nemmeno tanto mascherato di chi li chiamava con il nome del loro paese e non con quello di battesimo. Tutti accomunati da un destino di «profughi» che non si è mai cancellato.
25 marzo 2022 (modifica il 25 marzo 2022 | 21:04)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-03-25 20:10:00,
di Paolo Mereghetti
Il documentario «Po», in arrivo nei cinema, prodotto dall’Istituto Luce sulla tragedia che costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case. I ricordi dei sopravvissuti
Non ci sono solo le guerre a sconvolgere la vita dei popoli. A volte è la Natura che distrugge ma i risultati sono simili perché trasformano gli abitanti in profughi, costretti a cercare altri spazi per vivere. È il messaggio che ci lascia il bel documentario «Po», in arrivo nei cinema, realizzato da Andrea Segre e Gian Antonio Stella e prodotto dall’Istituto Luce sull’alluvione che nel novembre 1951 costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case, sommerse dall’acqua. Allora non avevano la tv ma cinque operatori documentarono i fatti per quello che allora era il mezzo di comunicazione di massa, il cinema, e i suoi cinegiornali restituirono a tutto il Paese la dimensione immane di quella tragedia. Riprese che Segre e Stella hanno recuperato (e restaurato) per accompagnare i ricordi di chi allora era bambino e subì sulla propria pelle il destino del profugo. Oggi hanno tutti più di settant’anni, alcuni anche ottanta ma il ricordo di quei giorni non si è mai cancellato perché, se la logica dei soccorsi era quella di salvare prima i bambini, molti furono presi e separati dai genitori, rimasti ad aspettare i soccorritori successivi. Finendo spesso per dover aspettare anche un mese prima di poter essere ricongiunti a mamme e papà. Sempre che non fosse successo come a quelle 84 persone che salite su un camion per fuggire furono travolte da un’improvvisa onda di piena, annegando. E i ricordi di un figlio (vivo perché separato dai genitori e portato via prima) sono tra i momenti più strazianti del film: «Nessuno mi diceva niente, si vergognavano anche a parlarmi pur di non dovermi dire quello che era successo». Segre e Stella non fanno domande, lasciano che la memoria faccia il suo compito, aiutando lo spettatore con gli estratti dai cinegiornali i cui commenti stridono con il dolore dei volti muti. C’è chi ricorda anche con allegra impertinenza il braccio di ferro per un piatto di minestra col parroco anticomunista che l’aveva sentita cantare Bandiera rossa con le amiche. Ma c’è anche chi non ha dimenticato la fame della sua condizione di «emigrato» in Piemonte o il disprezzo nemmeno tanto mascherato di chi li chiamava con il nome del loro paese e non con quello di battesimo. Tutti accomunati da un destino di «profughi» che non si è mai cancellato.
25 marzo 2022 (modifica il 25 marzo 2022 | 21:04)
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