Le candidature multiple alle elezioni che aiutano i big (e non chi vota)

di Renato Benedetto

Per sfruttare l’effetto traino dei leader, per blindare l’elezione degli esponenti di partito, per «aggirare» le quote rosa. Ecco come i partiti usano la possibilità di far correre la stessa persone in più collegi

Fanno giri immensi e poi ritornano, certe candidature: da Nord a Sud, dai collegi uninominali ai listini del proporzionale, sfogliando l’elenco dei partiti non è raro imbattersi negli stessi nomi che riappaiono più volte. Leader in testa. Giorgia Meloni corre all’Aquila, all’uninominale, ma il suo nome comparirà anche sulle schede, nella parte proporzionale, in Lombardia, Lazio, Puglia e Sicilia. Matteo Salvini, oltre alla sua Milano, ha scelto il Sud: Basilicata, Calabria e Puglia. Enrico Letta si propone in Lombardia e in Veneto. Silvio Berlusconi oltre a Monza, scelta che si intreccia con le ragioni del calcio, sarà a Napoli e in Lombardia, Piemonte e Lazio. Perfino il Movimento 5 Stelle, che nel 2018 tuonava contro questa prassi, adesso l’ha sdoganata: non solo per il leader Giuseppe Conte (in Lombardia, Puglia, Campania e Sicilia) ma anche per alcuni dei suoi fedelissimi.

Di qua e di là

Le pluricandidature sono previste dal Rosatellum, la legge elettorale con la quale si voterà il 25 settembre. La stessa persona può correre in un collegio uninominale (dove cioè passa solo uno, quello che prende più voti) e, contemporaneamente, in più collegi del proporzionale (dove ci sono i listini bloccati), fino a un massimo di cinque. Non è il candidato a poter optare per la regione di elezione che preferisce, c’è una scala di priorità: se vince all’uninominale, l’elezione scatta lì; se no nella circoscrizione dove la sua lista ha ottenuto più voti. Le candidature multiple sono un indubbio vantaggio per il candidato, che ha così più chance di elezione. Convengono anche alle segreterie dei partiti, che hanno così margini maggiori per assicurare un posto ai candidati che vogliono «blindare». L’unico a rimetterci è chi va a votare, perché il rapporto tra elettore ed eletto — soprattutto la chiara riconoscibilità di chi si sta mandando in Parlamento — si fa più complicato.

Metti i leader in (più di una) lista

I leader, e i big nazionali dei partiti, sono candidati in più regioni per attrarre consensi. Ad esempio, l’elettore di Forza Italia — è il ragionamento — sarà più invogliato a votare per Forza Italia se sulla scheda c’è il nome di Silvio Berlusconi. Ma l’elettore del collegio Campania 1 in Senato deve sapere che il leader di FI, capolista, molto probabilmente verrà eletto nella «sua» Monza; e che la numero due di quella lista, Anna Maria Bernini, è candidata a Padova in un collegio dove è favorita; quindi quel voto, con buona probabilità, lo esprime per mandare in Senato Francesco Silvestro e Giuliana Franciosa, non Berlusconi e Bernini, numero tre e quattro della lista. L’esempio riguarda FI, ma il meccanismo vale per tutti i partiti. Chiara Appendino è candidata capolista in quattro collegi del Piemonte: sarà eletta soltanto in uno, chiaramente, lasciando il posto ai secondi meno conosciuti.

Per andare sul sicuro

Non c’è solo l’effetto traino. Le pluricandidature sono anche un paracadute. Essere in lista al proporzionale può servire a essere «ripescati» nel caso si perda all’uninominale, sfida secca e pertanto rischiosa. Se Carlo Calenda dovesse perdere la sfida dell’uninominale a Roma con Emma Bonino, per lui non sarebbe finita: tra Emilia-Romagna, Lazio, Sicilia e Veneto, dove è candidato, un seggio spunterà. Vale anche l’inverso: se la nuova lista di Luigi Di Maio e Bruno Tabacci, Impegno civico, non dovesse raggiungere il 3%, soglia minima per ottenere seggi, i due leader potrebbero comunque farcela all’uninominale (avvantaggiandosi dei voti di coalizione: senza voto disgiunto, non è possibile a Napoli-Fuorigrotta votare Pd, Si-Verdi e +Europa senza scegliere anche Di Maio). Anche correndo solo nel proporzionale, correre da più parti è una garanzia di sicurezza in più: il ministro Stefano Patuanelli, triestino, è in corsa non soltanto nel suo Friuli Venezia Giulia, dove le chance sarebbero poche, ma anche nel Lazio e in Campania.

Così aggiro le norme sul genere

C’è un altro aspetto delle pluricandidature: permettono di aggirare le norme sulla parità di genere. Nelle schede elettorali, il 25 settembre, i nomi dei candidati e quelli delle candidate nei listini bloccati del proporzionale saranno alternati; e i capilista dello stesso sesso non potranno superare la quota del 60%. Questa è la norma. Questo invece l’inganno: se si mette una donna capolista in cinque collegi, questa verrà eletta in uno soltanto, cedendo il passo così a quattro secondi — uomini — che diventano «capolista di fatto». Nel 2018, a essere candidate in più collegi erano state soprattutto le donne, rilevava un’analisi del Cattaneo: «Si potrebbe vedere in questo un tentativo dei partiti di dare maggiore visibilità e importanza alle candidature femminili; al contrario, più realisticamente, c’è da aspettarsi che queste pluricandidature apriranno la strada, per ogni candidata eletta, a cinque (o quattro, o tre) eletti uomini».

5 settembre 2022 (modifica il 5 settembre 2022 | 17:13)

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, 2022-09-05 20:42:00, Per sfruttare l’effetto traino dei leader, per blindare l’elezione degli esponenti di partito, per «aggirare» le quote rosa. Ecco come i partiti usano la possibilità di far correre la stessa persone in più collegi, Renato Benedetto

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