di Gian Antonio StellaCinquant’anni fa Daniele Orfei prese un cappuccino a Messina arrivando con un elefante, mentre a Roma ci si spostava in canoa sul Tevere. Ma quell’inverno del 1973 dovrebbe essere ricordato come una grande occasione persa per cambiare davvero le abitudini
C’è chi ricorda Daniele Orfei, della mitica famiglia circense, che di passaggio a Messina andò a farsi un cappuccino parcheggiando un elefante davanti a un caffè del centro. Chi «la bella jugoslava Olga Bisera» che in minigonna chiese «un passaggio a una canoa sul Tevere a Castel Sant’Angelo». Chi Silvia Koscina beccata mentre violava il divieto assoluto di uscire in macchina.
Quell’inverno di austerity del 1973 però, al di là degli aneddoti, meriterebbe di essere ricordato come la grande occasione persa dall’Italia per mettersi in testa che quello delle risorse energetiche è un problema serio col quale fare i conti. E fa rabbia vedere oggi Mario Draghi costretto a ricordare a Versailles, nel mezzo dei bombardamenti scatenati da Vladimir Putin in Ucraina, che «non siamo assolutamente in un’economia di guerra, ma dobbiamo comunque prepararci a ri-orientare le nostre fonti di approvvigionamento e ciò significa costruire delle nuove relazioni commerciali». Per tappare i buchi del passato.
Fa rabbia perché, come dimostrano numerose analisi pubblicate già quarantanove anni fa, molti nuvoloni sul nostro futuro erano vistosissimi già allora. E contrastano in modo accecante con una certa leggerezza iniziale mostrata in quei mesi da larga parte degli italiani. Basti ricordare una pagina di Luca Goldoni sul Corriere a fine aprile del ‘74: «Ma c’è stata davvero l’austerità? Ora che l’inverno della crisi è finito, la gente si chiede se, al di là del folklore, tutto non stia continuando come prima. Cinema e ristoranti sono pieni, le targhe alternate non impediscono le autocolonne domenicali, nei supermercati si compra più di prima per accaparrarsi i generi prima che aumentino i prezzi. Secondo i sociologi, il ritorno alla natura delle prime settimane congiunturali è ora risommerso dalla plastica e dal consumismo».
Del resto già il 3 dicembre 1973, il giorno dopo (il giorno dopo!) la prima delle domeniche a piedi decise la settimana prima da Mariano Rumor per far fronte al precipitare della crisi energetica seguita alla guerra dello Yom Kippur, decisione accettata come obbligata dai partiti di governo e dai giornali moderati ma non dalle sinistre («Decisi nuovi gravi rincari dei carburanti e provvedimenti di restrizione dei consumi», aveva titolato l’Unità) i mal di pancia erano già emersi. Mal di pancia inconsapevoli dei guai in arrivo nei decenni successivi.
Basti rileggere un editoriale profetico, ancora sul Corriere, di Alfredo Todisco, da sempre attento ai temi ambientali e autore di un libro stupendo (Animali addio) amatissimo da Indro Montanelli e Antonio Cederna: «Le restrizioni escogitate dal governo per fronteggiare la crisi energetica stanno suscitando una opposizione molto più accesa di quella che finora si manifesta negli altri paesi europei colpiti dall’austerità. (…) Come è potuto accadere che una costruzione colossale, come quella della “società opulenta” sia stata eretta su fondamenta tanto fragili e senza ricambio? Come è stato possibile mettere in movimento una macchina che impegna tutti i nostri sforzi e le nostre speranze, senza prima avere attentamente accertato la continuità dei rifornimenti indispensabili a farla funzionare?» Ed ecco l’affondo: «La ristrettezza delle materie prime si farà sentire sempre di più. (…) La crisi di questi giorni è solo un avvertimento, una piccola “prova generale”, di ciò che domani potrebbe succedere in proporzioni irreparabili».
Parole che potrebbero essere state scritte ieri mattina. E che col senno di poi, davanti ai rincari abnormi denunciati dal ministro Roberto Cingolani come «una colossale truffa» e alla prospettiva di drastici tagli non solo ai prodotti petroliferi ma anche nelle forniture di grano e altri beni assumono un valore perfino più profondo di quanto ebbero allora: se fossero state lette.
Perché questo è il dubbio che viene, a ricostruire la storia di quello shock del 1973: quanta consapevolezza c’era, davvero, su quello che accadeva? Si vide di tutto. Dal capo dello Stato Giovanni Leone che volendo mostrarsi ligio alla legge fece tirar fuori dalle scuderie del Quirinale, per scendere in piazza di Spagna e partecipare all’omaggio all’Immacolata Concezione, una carrozza a cavalli alle foto di vecchi carretti contadini recuperati per fare un picnic sui colli, dalle file di ciclisti che sfidavano in bicicletta autostrade abbandonate a se stesse da dodici milioni e mezzo di automobili a un tripudio di pattini a rotelle, monopattini «a propulsione umana» come si ironizzava allora in attesa di quelli elettrici che falciano i pedoni di oggi, e poi bighe alla Ben Hur e risciò… Il tutto accompagnato, come è stato notato, dalla canzone «Austerity» di Tony Santagata, semifinalista a Canzonissima: «Abbassa la corrente di voltaggio / bisogna risparmiare fino a maggio…»
Per non dire di tutto il contorno sugli accaparramenti di spaghetti e mezze maniche a Milano («ma se la situazione migliorerà per la pasta, c’è chi fa pessimistiche previsioni per lo zucchero e per gli oli vegetali»), sui furti di quattro taxi a Roma forse rubati per una gita fuori porta, sullo spirito imprenditoriale di un bolognese che aveva accantonato in una stanza dell’appartamento un quintale di sale grosso. E via così…
Un impasto irripetibile di iniziale buonumore per la novità e di collera crescente per la scoperta di come l’automobile fosse diventata ormai una schiavitù alla quale era difficile sottrarsi. E a un certo punto, scriverà il grande Edmondo Berselli, «in qualsiasi discorso saltava sempre fuori: eh, c’è la congiuntura. Aldo Moro estrasse dal vocabolario internazionale l’austerity, come se a dirlo in inglese l’effetto fosse meno fastidioso, ma con la conseguenza che sembrava una misura dettata da arcigne potenze straniere, da entità invisibili e cattive. È in quel momento che muoiono le prime illusioni: ci si rende conto che l’economia è effettivamente la “triste scienza”. Ma potevano informarci con più delicatezza, santo cielo, non c’era bisogno di farci sentire tutti colpevoli».
E sullo sfondo, una grande malinconia. Quella descritta ad esempio da Leonardo Vergani sulla prima notte austera di Milano: «Ad una ad una si spengono le luci della città. Già molto prima delle ventuno, quasi tutti i negozi del centro hanno le vetrine buie. Lungo le strade il traffico è rado e frettoloso. Nessuno vuol farsi cogliere lontano da casa dall’ora dell’austerità. (…) Le grandi insegne di piazza del Duomo si smorzano, l’omino del lucido Brill, che chissà da quanti anni si specchia nella scarpa sinistra, svanisce nel nulla, smette di funzionare anche l’orologio elettronico che dà i decimi di secondo. (…) Poco dopo le dieci la Galleria Vittorio Emanuele è vuota. Al centro, una cabina telefonica e una buca delle lettere dovrebbero far pensare a un assurdo angolo di Londra (…) Come hanno fatto questa notte i nottambuli e gli insonni? A giudicare dall’affollamento delle farmacie, si sono smerciate vagonate di pillole tranquillanti…» Il giorno dopo, lunedì, il traffico era un caos…
13 marzo 2022 (modifica il 13 marzo 2022 | 22:22)
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, 2022-03-13 21:22:00, Cinquant’anni fa Daniele Orfei prese un cappuccino a Messina arrivando con un elefante, mentre a Roma ci si spostava in canoa sul Tevere. Ma quell’inverno del 1973 dovrebbe essere ricordato come una grande occasione persa per cambiare davvero le abitudini, Photo Credit: , Gian Antonio Stella
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