di WALTER VELTRONI
Il 17 maggio 1972 veniva assassinato il commissario Calabresi, vittima di una campagna velenosa da parte di chi lo accusava per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli
Quale Italia era quella in cui fu ucciso — il 17 maggi 1972 – il commissario Luigi Calabresi? Talvolta, inabissati nel gorgo delle miserie di questo tempo che ci appare straniero, si è portati a rimpiangere i «bei tempi andati». Si può avere, certo, nostalgia per la passione civile di milioni di persone, per il livello del dibattito politico e culturale, per la statura dei leader dei partiti, dei sindacati, delle imprese.
Ma non si può rimpiangere il clima d’odio di quegli anni vitali e bastardi. Oggi segnaliamo, dovremmo farlo di più, l’imbarbarimento del linguaggio dei social, il dilagare di violenza verbale, di antisemitismo, sessismo, intolleranza nei confronti dell’altro da sé.
Allora, non dimentichiamolo mai, si sparava. Si mettevano le bombe, si aspettava sotto casa un ragazzo di destra o di sinistra per prenderlo a coltellate o a sprangate, si sequestrava, si uccideva con la facilità con cui lo si fa in guerra. In quegli anni il sangue è stato versato a litri, in una guerra in cui, diversamente da quella di Liberazione, non esistevano un torto e una ragione, definiti dalla libertà, ma solo due giganteschi, stupidi, inutili e sanguinosi torti.
Neppure si può avere nostalgia per il tempo di Sindona, di Gelli, della P2, di Gladio, dei servizi deviati, dei rapporti di scambio tra governo e mafia. O per l’inflazione a due cifre e il debito pubblico alle stelle. Era un Paese bloccato, senza alternanza politica, condizionato pesantemente dalla guerra fredda. I grandi meriti di quella classe dirigente, la Costituzione e la ricostruzione modernizzatrice del Paese, vennero dissipati dalla trasformazione del potere da mezzo a fine.
Era questa l’Italia che aveva condannato a morte il commissario di polizia Luigi Calabresi. L’Italia dell’odio e della vendetta, dell’estremismo intollerante, l’Italia sgusciante e velenosa degli apparati dello Stato inquinati dalla continuità col fascismo e dalle logiche della guerra fredda.
Ancora oggi non sappiamo chi ha materialmente messo la bomba a Piazza Fontana, non certo Valpreda, non sappiamo come è morto Pino Pinelli «un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi, infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine» come disse Giorgio Napolitano nel 2009. E così per le troppe stragi e per le tante assurde uccisioni di quel tempo. Sappiamo, ha avuto il coraggio di dirlo Sergio Mattarella davanti alle vedove Calabresi e Pinelli nel cinquantesimo anniversario di Piazza Fontana, che: «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia. L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata, quindi, doppiamente colpevole».
Calabresi fu vittima di una campagna di odio terribile. Fu definito su «Lotta Continua»: «Torturatore di alcuni compagni, assassino di Giuseppe Pinelli, complice degli autori della strage di Milano». Fino alla famosa frase, dopo l’assassinio, in cui diceva che non si poteva «deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».
Era il clima di quegli anni odiosi, in cui persone di valore, come si sono rivelati nel tempo molti dei dirigenti di Lotta Continua, potevano sottoscrivere le parole disumane del loro giornale. In cui democratici di sicura fede e di ogni orientamento potevano aderire a un appello in cui tornava la parola «torturatore». Firmarono Parri e Amendola, Fellini e Pierre Carniti, Terracini e Lombardi. Erano anni in cui tutto era in bianco e nero, in cui esistevano recinti che separavano le idee e le rendevano incomunicabili tra loro, in cui la diversità politica, ogni diversità, era una colpa da lavare col sangue. Bisogna tornare lì, per capire.
Valgono le parole di Gemma Calabresi, quando al Quirinale si diede la mano con Licia Pinelli: «Ho sempre detto che mio marito e Pinelli sono vittime del terrorismo e della campagna di odio che in quegli anni lacerò l’Italia».
Luigi Calabresi è stato ucciso al termine di una lunga campagna d’odio. Era un uomo che camminava con un bersaglio addosso. Eppure lo lasciarono solo, con la sua Fiat Cinquecento, ad aspettare che lo ammazzassero. Era un esito previsto, non prevedibile, in quegli anni orrendi.
Esisteva allora un codice di stampo mafioso che prevedeva la punizione di chi si riteneva nemico, vendetta che veniva consumata nei confronti di avversari politici, poliziotti, magistrati, funzionari dello Stato, spesso persino propri compagni di gruppo terroristico. Fino all’orrore del sequestro e dell’uccisione di Roberto Peci, perpetrato per colpire il fratello Patrizio, o all’assassinio di tanti terroristi di destra, in carcere e fuori, accusati di aver « tradito» i loro camerati dell’eversione nera. C’era sempre un reprobo da punire e qualche improvvisato tribunale autocratico che, senza consentire difesa, comminava e faceva eseguire pene di morte. Come la mafia, proprio come la mafia.
Pino Pinelli un giorno regalò al commissario Calabresi, che conosceva da tempo, l’Antologia di Spoon River.
Ora anche loro due «dormono, dormono sulla collina».
Come tutte le vite spezzate dal tempo dell’odio. Il più pericoloso dei sentimenti umani.
Sarà bene non dimenticarlo, oggi.
16 maggio 2020 (modifica il 13 ottobre 2022 | 14:37)
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, 2022-10-13 13:33:00, Il 17 maggio 1972 veniva assassinato il commissario Calabresi, vittima di una campagna velenosa da parte di chi lo accusava per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, WALTER VELTRONI