Mafia dei Nebrodi, arriva la stangata al maxiprocesso: 600 anni di carcere «Boss arricchiti truffando l’Ue» 

di Alessio Ribaudo

La sentenza di primo grado sostanzialmente conferma l’impianto delle accuse mosse dagli inquirenti e dalla Dda di Messina. Condannati in 91 fra cui i presunti appartenenti alle cosche tortoriciane. La pena massima supera i 30 anni. Antoci: «Ha vinto lo Stato»

Commentatori digiuni di storia della mafia per anni li hanno descritti come rozzi montanari o, al massimo, malandrini: tutti dediti ad abigeati, estorsioni e traffici di droga di piccolo cabotaggio. Invece, nel silenzio generale, i clan tortoriciani avevano architettato raffinate truffe ai danni dell’Unione europea e dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che gli avevano ingrossato i conti correnti e la «caratura» criminale. Niente rischiose pistole e lupare ma semplici moduli da compilare spesso certificando il falso. Un meccanismo perfetto, come gli ingranaggi che fanno funzionare gli orologi svizzeri, che si è però inceppato quando all’improvviso l’arrivo del «protocollo Antoci» ha eliminato le autocertificazioni antimafia. Racconta questo e molto di più la sentenza di primo grado del maxiprocesso «Nebrodi» con la quale al Tribunale di Patti, nel Messinese, sono stati inflitti oltre 600 anni di carcere a 91 imputati oltre a sequestri di beni per circa quattro milioni di euro. Dieci, invece, le assoluzioni. È una sentenza «miliare» quella che arriva, dopo 20 mesi: conferma sostanzialmente le accuse degli inquirenti sul fatto che ci fosse un fiume milionario di denaro pubblico su cui scorrevano gli interessi dei clan di Tortorici, nel Messinese. Un operoso centro a vocazione agricola, popolato da migliaia di onesti lavoratori, aggrappato sui Monti Nebrodi. La sentenza è miliare da molti punti di vista. Intanto è stato il più grande mai celebrato in Europa in tema di truffe ai fondi pubblici erogati all’agricoltura, sia italiani sia Ue con lo Stato che ha dimostrato di saper rispondere in tempi record se si considera la mole enorme di accuse da esaminare per il collegio presieduto da Ugo Scavuzzo e composto dai giudici Andrea La Spada ed Eleonora Vona. Poi la media delle pene è stata molto dura: sei anni e mezzo di carcere a condannato. Giusto per fare un paragone, la media è superiore allo «storico» «maxiprocesso di Palermo» che vide una media fu di 5 anni e otto mesi. Tornado al processo di lunedì, la lettura del dispositivo è arrivata alle 23, alla fine di una giornata interminabile, dopo una camera di consiglio durata otto giorni. Ad avere comminata la pena più alta è stato Aurelio Salvatore Faranda (30 anni) mentre per Sebastiano Conti Mica sono arrivati 23 anni. Invece, l’ex sindaco di Tortorici Emanuele Galati Sardo è stato condannato a 6 anni e due mesi. In linea generale, i giudici hanno sostanzialmente confermato, seppur rivedendo al ribasso alcune pene, le tesi sostenute dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Messina — guidata fino a poche settimane fa dal procuratore Maurizio De Lucia, oggi alla guida della Procura di Palermo — che aveva chiesto un totale di 1.045 anni di carcere per i 101 imputati. «Le truffe sono state riconosciute per buona parte — ha commentato a caldo Di Giorgio — e resta il fatto che su quella parte di territorio della provincia di Messina le truffe hanno costituito la principale fonte di arricchimento sia del gruppo mafioso dei Batanesi sia del gruppo dei Bontempo Scavo, ma teniamo conto che è solo la sentenza di primo grado». I condannati dovranno anche risarcire le parti lese fra cui associazioni «antimafia» come Libera e Addiopizzo Messina; il Centro studi «Pio La Torre» e il Comune di Tortorici, nel Messinese. «È stata riconosciuta la mafiosità per i Batanesi mentre per il gruppo dei Bontempo Scavo no — ha proseguito il procuratore aggiunto — ed è stata riconosciuta l’esistenza del 640 bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.Ndr), in alcuni casi aggravata. Sicuramente questo è un aspetto importante ma è un dispositivo talmente complesso che va letto attentamente».

Il blitz

All’alba del 15 gennaio del 2020 i carabinieri del Ros e i finanzieri del Gico — coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, guidata da Maurizio de Lucia — condussero un grande blitz che si concluse con 94 arresti (48 furono ristretti in carcere e 46 ai domiciliari) a vario titolo associazione per associazione a delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata. Inoltre furono sequestrate 151 aziende. Come si legge nelle carte dell’ordinanza del Gup di Messina: «la mafia ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali…..» e che «il campo di maggiore operatività è divenuto il grande business derivante dalle truffe ai danni dell’Unione Europea, come detto più remunerative e meno rischiose». Un meccanismo interrotto da un coraggioso presidente dell’allora Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Ideò un «protocollo di legalità» che poi prese il suo nome e che, nel 2015, entrò nel codice Antimafia. Qualche mese dopo, il 18 maggio del 2016, fu vittima di un attentato mafioso. Per i magistrati di questo maxiprocesso «nella presente indagine di truffe milionarie e di furto mafioso del territorio trova aspetti di significazione probatoria e chiavi di lettura di quell’attentato… Antoci si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia».

Le prime condanne

Nel corso del tempo, il banco degli imputati è diminuito di 18 posizioni perché il Gup di Messina per alcuni aveva inviato gli atti a Catania per incompetenza territoriale mentre altri quattro hanno già patteggiato la pena e, con il rito abbreviato, sono arrivate in Appello, lo scorso aprile, tre assoluzioni e cinque condanne con pene che hanno raggiunto anche i 24 anni per Sebastiano Bontempo. Gli inquirenti, hanno ricostruito da un lato il nuovo assetto del clan dei Batanesi, operante nel Tortoriciano; dall’altro si sono invece concentrate su quello dei Bontempo Scavo. Secondo l’accusa, le cosche di quest’area aveva guadagnato una caratura criminale tale da poter «dialogare» con quelle del Catanese, dell’Ennese e del Palermitano. Come disse l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho questa mafia ha compiuto «un salto di qualità anche a livello nazionale, con inserimenti nell’economia legale con sistemi illegali. Chi doveva controllare non controllava, chi doveva sostenere la formazione del fascicolo aziendale per ottenere i finanziamenti era complice dei clan che si arricchivano». I due clan oggetto dell’inchiesta «Nebrodi» per finanziarsi, utilizzavano anche il lucroso metodo di ottenere contributi comunitari concessi dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) che aveva portato nelle casse delle cosche circa 10 milioni di euro, a partire dal 2013. Tanto che la Guardia di finanza, in occasione degli ultimi arresti in zona sempre su truffe in agricoltura, ha affermato come questo sia un «territorio significativamente minato dalla pervasiva presenza di strutturate organizzazioni criminali, vieppiù di matrice mafiosa». Milioni di euro sottratti agli onesti agricoltori e allevatori dei Nebrodi che sono la maggioranza e da secoli fertilizzano quei terreni con ettolitri di sudore. Cittadini che per più di un anno hanno dovuto affrontare l’onta di vedere il proprio Comune commissariato per infiltrazioni mafiose. Nell’inchiesta non sono finiti solo presunti associati ai clan ma anche «colletti bianchi» fra cui ex collaboratori dell’Agea e persone dei centri di assistenza agricola che avevano conoscenza ottima dei meccanismi con cui vengono erogati milioni e milioni di euro e dei metodi di controllo.

Il «protocollo Antoci»

Un sistema che si «inceppò» grazie agli anticorpi iniettati dal «protocollo Antoci», ideato dalla Giuseppe Antoci che con questo controllo di legalità fu il primo a tagliare l’erba sotto i piedi della mafia. Tanto che poi subì un attentato mafioso il 18 maggio del 2016 che, proprio secondo gli inquirenti, maturò a causa di ritorsioni al suo impegno per ridare dignità ai lavoratori onesti e mettere alla porta il malaffare. Un protocollo che poi entrò a far parte del Codice antimafia e diventò norma nazionale. «Il protocollo Antoci è importante — ricordò in conferenza stampa il giorno del blitz, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho — perché per primo permise di scoprire questo tipo di attività e poi diventato uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie». Ecco perché oggi alla lettura della sentenza di primo grado proprio Giuseppe Antoci ha voluto essere presente. «Li volevo guardare negli occhi uno a uno e spiegare loro con questo mio atto di presenza — dice in lacrime Antoci — che lo Stato ha vinto. Per me oggi è un giorno importante perché anche grazie alle mie battaglie si è arrivati a questo traguardo mentre io sono vivo grazie alla mia scorta datami proprio dallo Stato, non avrò pace sinché loro non saranno individuati e condannati». Poi va oltre: «Certo, mi piacerebbe sapere chi sono tutti quegli operatori appartenenti alla pubblica amministrazione che vedevano passare documenti con nomi importanti di boss mafiosi ai quali arrivavano milioni di euro di fondi europei nei conti correnti, chi certificava tale andazzo mentre quei fondi dovevano servire al rilancio dell’agricoltura in un luogo stupendo come i Nebrodi popolato da tane persone perbene ed invece andavano ai mafiosi. Ecco, spesso penso a loro e al loro silenzio ma era paura o connivenza?». Un silenzio che, secondo Antoci, ha avuto conseguenze. «Anche quel silenzio ha armato le mani di chi quella notte voleva uccidere me e i poliziotti della mia scorta — conclude — Spero si faccia luce anche su questo. Ci sarebbe stata un’altra strage di mafia da commemorare, invece oggi celebriamo la vittoria dello Stato che dimostra che quando si muove unitariamente, quando fornisce mezzi normativi alle forze di polizia e alla magistratura per combattere le mafie, arrivano anche i risultati».

1 novembre 2022 (modifica il 1 novembre 2022 | 04:11)

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, 2022-11-01 02:48:00, La sentenza di primo grado sostanzialmente conferma l’impianto delle accuse mosse dagli inquirenti e dalla Dda di Messina. Condannati in 91 fra cui i presunti appartenenti alle cosche tortoriciane. La pena massima supera i 30 anni. Antoci: «Ha vinto lo Stato» , Alessio Ribaudo

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