di Andrea Nicastro
Nella città porto rimangono duemila soldati ucraini asserragliati in un piccolo settore di case basse. Il Cremlino dice no a un lasciapassare che salvi loro la vita
DAL NOSTRO INVIATO A DNIPRO Al giorno 48 di guerra e al 42° di assedio, Mariupol non è ancora caduta, ma i suoi abitanti sono ormai fuori dai combattimenti. Le bombe non masticano più le loro case. I russi controllano quasi tutte le aree residenziali. Resta un piccolo settore, di case basse, unifamiliari, adiacente all’acciaieria dove i soldati di Putin e le truppe ucraine si scontrano di notte. È un angolo di inferno che misura circa mezzo chilometro per lato. Lì mortai e carri armati possono ancora colpire le case civili, ma la stragrande maggioranza di questa città da 450 mila abitanti è ormai nelle mani di Mosca. Non è ipotizzabile che gli ucraini partano al contrattacco coinvolgendo di nuovo gli abitanti. È un cambio di prospettiva, importante perché segna la fine della tragedia umanitaria della città-porto. Ne resta un’altra, di tragedia, però. È il massacro a camera lenta di almeno 2 mila uomini. Sono i soldati ucraini che non si vogliono arrendere. A loro bisogna aggiungere i soldati russi che hanno l’ordine di ucciderli.
Muoiono gli uni e gli altri, ucraini e russi. Ogni giorno. Ogni notte. Sotto le bombe, per le trappole esplosive, durante i blitz che i russi compiono all’interno dell’acciaieria e quelli ucraini all’esterno. Il sindaco Boichenko, fuggito da settimane, ipotizza ci siano 21 mila cittadini morti tra le macerie. Cadaveri che forse invisibili inceneritori russi faranno sparire, ma non è certo il momento di mettere Mariupol nell’archivio degli orrori. Il dramma continua e i morti possono essere molti di più, duemila appunto, come chi tiene la bandiera ucraina tra le strutture della vecchia acciaieria. Non è solo temerarietà, è un’operazione strategica per l’intera guerra perché tiene lontani 12/15 mila soldati russi dalla battaglia del Donbass che si sta preparando poco più a nord.
Tra i palazzi sventrati
La prova della follia che si è consumata in questa città sta nel numero delle persone che si aggirano tra i palazzi sventrati. Sono decine di migliaia, vestiti di abiti logori e sporchi. Non hanno ancora acqua per lavarsi, non hanno modo di comunicare con i loro telefonini, implorano i giornalisti accompagnati dalle truppe russe di avvertire i parenti nel mondo di fuori. «Sono ancora viva» dice Oxana a favore di telecamera. Piange, non riesce neanche a raccontare l’incubo che ha vissuto, un mese e mezzo di fame, freddo, con il condominio che le crollava addosso e la paura costante di morire. Poi ringrazia, saluta e quando i reporter scappano al coperto per ripararsi dalle granate che esplodono vicino, Oxana si incammina lenta, al centro della strada, come se quei botti non fossero per lei. Come se, dopo un mese e mezzo di fortuna, fosse diventata immortale.
I profughi
È una città di gente traumatizzata, Mariupol. Quelli che sono scappati all’assedio e adesso sono a Zaporizhzhia, a Leopoli o anche all’estero, tremano al suono di un temporale, non si addormentano senza le scarpe addosso perché così si sentono più sicuri di poter scappare in ogni momento. Chi è lontano da Mariupol tenta di assorbire quel che ha vissuto. Chi è restato neppure ci prova. C’è un carro armato con il colpo in canna che si muove sui cingoli? Le ombre della città proseguono imperterrite, a piedi o in bicicletta, nella loro perenne ricerca del furgone russo che distribuisce i viveri. La carestia dell’assedio ha lasciato il segno nella mente. Le scatole vengono accumulate nelle case sfondate perché, non si sa mai, potrebbe ricominciare. Il loro obiettivo non è salvarsi, ma sopravvivere. Cucinare il pasto sul fuoco a legna e aspettare. Questo li ha sottratti al massacro dei 20 mila e questo continuano a fare.
L’altro eccidio, quello che si deve ancora compiere, riguarda circa duemila militari ucraini. Molti sono feriti, ma gli altri combattono. Un migliaio, forse meno. In tutta la città si sentono esplodere le loro bombe e quelle dei russi che cercano di stanarli. È un costante martellare. La storia della loro resistenza è già mito. Per liberarli si fantastica di operazioni coperte, blitz in elicottero e su motoscafi veloci. Ci sono sacche di resistenza ucraina ancora al porto, attorno allo stadio di calcio e soprattutto nell’Azovstal, la più grande acciaieria d’Europa che prima della guerra macinava 2,7 miliardi di utile l’anno. Ora è un rottame, ma nelle sue gallerie, resiste il Battaglione Azov.
Fonti russe annunciano ogni giorno che qualche ucraino si è arreso e qualcun altro ha cercato di fuggire in abiti civili. È anche per questo che il numero di russi concentrati su Mariupol è così imponente. Bloccare le vie d’uscita di una città grande come Palermo richiede un numero di soldati enorme. Fonti ucraine sostengono che un reparto di marines della 36^ Brigata Bilinsky sia riuscito a ricongiungersi al grosso della resistenza. Un nuovo video, però, conferma il disperato post di Facebook di lunedì. Un anonimo marine ammette alla tv di Kiev che «senza più munizioni non possiamo difenderci».
Le vie d’uscita
«I nostri soldati sono rimasti bloccati e hanno problemi nei rifornimenti – ha ammesso mestamente Mykhailo Podolyak, consigliere di Zelensky -. Il presidente e gli alti comandi stanno cercando una soluzione per aiutare i nostri ragazzi». Come? Silenzio. Mentre Kiev elabora vie d’uscita, Mosca cerca di tapparle e i marine cedono, le forze speciali di Azov combattono. Dal Cremlino non ci sono aperture ad un lasciapassare che salvi loro la vita. I Paesi occidentali chiedono corridoi umanitari, ha detto la portavoce russa Maria Zakharova, «ma ormai non ci sono più civili intrappolati. È solo un trucco per salvare i neonazisti».
La difesa del Battaglione Azov ha ormai dell’incredibile per la mole di riserve che avevano accumulato, per l’organizzazione e il coraggio. I difensori di Mariupol hanno acceso la fantasia del Paese intero e accentuato la rabbia di chi, al Cremlino, voleva farne un simbolo negativo. Dopo un mese e mezzo di combattimenti isolati dal mondo, con armi a spalla contro bestioni corrazzati da 50 tonnellate, gli ucraini (e non solo) li hanno elevati al rango di Davide contro Golia o degli ebrei all’assedio di Masada. Il suicidio non è un’opzione moderna, ma la morte da arma chimica sembra una probabilità sempre più realistica e quindi capace di aumentare l’aura di eroi sopraffatti da un nemico vile, ma crudele. Il riferimento storico più popolare resta quello con gli spartani alle Termopili: non 300 contro l’immenso esercito di Serse, ma 3mila contro l’altrettanto infinita armata russa. Ci sono già ora storie di soldati che combattono mutilati, racconti che si gonfieranno nella leggenda, ma che per il momento restano cronaca di un assedio reale e spietato. Un’«operazione militare» che rischia di diventare strage sotto i nostri occhi impotenti.
Tra le autorità filorusse delle repubbliche indipendentiste circola questa ipotesi. Se non moriranno armi in mano, umiliati e battuti, i «nazisti» del Battaglione Azov, secondo la interpretazione di Mosca, dovranno sfilare il 9 maggio nelle strade di Donetsk, la capitale del Donbass riconquistato. È ciò che fece Stalin con i prigionieri tedeschi e che già replicarono nel 2014, al termine della prima guerra del Donbass, proprio a Donetsk. Poi nel 1945 come nel 2014, passeranno come gesto di ulteriore scherno le macchine idropulitrici per far sparire ogni macchia di nazismo dall’asfalto. L’Umanità è già scomparsa dal 24 febbraio.
12 aprile 2022 (modifica il 12 aprile 2022 | 22:41)
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, 2022-04-12 21:54:00, Nella città porto rimangono duemila soldati ucraini asserragliati in un piccolo settore di case basse. Il Cremlino dice no a un lasciapassare che salvi loro la vita, Andrea Nicastro