Memorial, la ong chiusa da Putin 5 giorni dopo la guerra. «Lo Stato vuole controllare come ricordiamo il passato»

di Viviana Mazza

Segej Bondarenko ha documentato e insegnato la storia dello stalinismo e spiega perché ricercatori come lui agli occhi del Cremlino sono pericolosi. «Volevamo raccontare come i gulag fossero un’idea statale. Ma lo Stato è tutto in Russia»

Sergej Bondarenko, classe ’85, è uno dei più attivi storici di Memorial, la Ong russa nata durante la Perestrojka per documentare i gulag e le vittime dello stalinismo, raccogliendo volti, nomi, storie e scavando negli archivi appena furono aperti. Memorial è stata chiusa il 28 febbraio scorso, cinque giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Sembra strano che storici, archivisti, bibliotecari siano visti come «pericolosi»? Ciò testimonia come il Cremlino combatta una guerra contro la memoria parallelamente a quella che combatte sul campo. Lo scorso marzo, Bondarenko e i colleghi rimasero per 15 ore davanti agli uffici della loro organizzazione, occupati da personale in borghese dell’Fsb e del centro «anti-estremisti». Quando il personale di Memorial riuscì ad entrare, nelle prime ore del mattino, trovò cinque o sei «Z» scritte sulle porte e le pareti. «Quegli agenti erano in 8 o 9, forse si annoiavano, nell’attesa che arrivassero gli specialisti per entrare nei nostri computer…». Ora Bondarenko si è rifugiato a Berlino e sarà ospite del festival vicino/lontano il 12 maggio in Italia, ma vorrebbe tornare in Russia per continuare il suo lavoro. «Sono uno storico, ho studiato nell’università di Mosca e ho lavorato per Memorial per 12 anni. In molti diversi ruoli. Ho iniziato nel programma per bambini, in 2000-3000 ci mandavano i loro temi di Storia e noi ne selezionavamo 50-60 che venivano a discuterne con noi. Ho iniziato come insegnante, quindi, ho proseguito come editor del sito di Memorial e poi mi sono occupato di idee per nuove mostre, ho lavorato a testi storici e agli archivi, ovvero il nostro “Libro della Memoria di Mosca”, che consiste nella ricerca dei file delle persone che furono perseguitate ai tempi di Stalin, perché al momento conosciamo solo il 20-30% delle storie, per il resto sappiamo solo i nomi ma non cosa è successo loro davvero».

È vero che lo Stato russo più che negare gli eventi (in realtà non nega completamente nemmeno i gulag) vuole controllare la Storia, per poterla marginalizzare se pericolosa, ed eventualmente costruire storie alternative che neutralizzino gli «effetti» non voluti?
«Penso che questa analisi del rapporto tra lo Stato e la memoria sia corretta. Non è che Putin e il governo russo dicono che i gulag non sono mai esistiti. Il punto è il monopolio dello Stato, vogliono dirci come ricordare, qual è la narrazione. Per esempio, il 29 ottobre è il giorno in cui ricordiamo i nomi di fronte alla Lubjanka, un evento pubblico (la restituzione dei nomi, un evento in cui i cittadini comuni leggono i nomi delle vittime dello stalinismo, ndr) e abbiamo avuto negli ultimi anni alcuni problemi, non solo dovuti al Covid ma anche al fatto che lo facciamo a 100-200 dal vecchio Kgb (ora Fsb). Da cinque o sei anni, lo Stato ha creato la sua Giornata della Memoria, che non si celebra vicino alla Lubjanka ma ad un altro monumento…»

Un monumento dedicato alle vittime ma in modo più vago?
«Più ampio… non mi fraintendete, è una buona cosa che l’abbiano fatto. Lo stesso Putin ha tenuto un discorso all’inaugurazione e ha usato le parole giuste, ma è indicativo che le autorità abbiano detto che è questo il luogo dove andare e che abbiano creato anche un loro museo statale del gulag. Per Memorial la cosa importante era dire che le purghe erano non un errore, ma un programma statale, erano basate sull’idea statale di eliminare le persone che hanno idee politiche diverse. Va capito questo per capire tutto il resto. E vanno ricordate le persone, con volti, nomi e storie. Insomma, abbiamo sempre avuto sensazione che le autorità prendessero il nostro lavoro e lo usassero secondo le priorità statali, ma non potevamo immaginare che sarebbe finita così. Per quanto mi riguarda, solo a febbraio mi è stato chiaro che avrebbero chiuso Memorial. E non avrei mai immaginato che cinque giorni dopo sarebbe scoppiata la guerra».

È negli anni Novanta che siete stati spinti all’opposizione?
«Nella nostra cerchia c’è un grosso dibattito su questo punto: quand’è stato il momento in cui è cambiata la situazione? Durante la Perestrojka tutti gli archivi furono aperti, tutti gli attivisti che fondarono Memorial parteciparono al processo della loro apertura, inclusi Arsenij Roginskij o Nikita Petrov. Ma già durante gli anni di Eltsin c’era l’idea che ci si dovesse fermare da qualche parte, che non si dovesse andare più a fondo, semplicemente perché bisogna avere qualcosa su cui costruire. I fondatori di Memorial erano combattenti per la libertà, ma nei primi anni 90 pensarono di aver vinto e immaginarono che ciò che restava da fare era creare progetti educativi, come musei e archivi. Negli anni di Putin, però, anno dopo anno, le cose cambiarono. Tra il 2008 e il 2010 ce ne siamo resi conto davvero».

Memorial è composto da una associazione che si occupa della Storia e da un centro per i diritti umani. In che modo queste due parti sono legate?
«Sin dall’inizio, c’era l’idea che non si possa lavorare sul passato senza farlo anche nel presente, se ti trovi davanti fenomeni come la nuova guerra in Cecenia e problemi di diritti umani devi fare qualcosa. È incredibile però oggi quanto poco i giudici e i procuratori prestino attenzione alla differenza tra le due organizzazioni di Memorial, che pure rientrano sotto leggi e protocolli diversi. Hanno detto che avrebbero chiuso Memorial e per loro è stato facile».

È una coincidenza che la guerra sia iniziata proprio mentre Memorial veniva chiuso?
«Non credo. Sin dall’inizio ci siamo chiesti quale fosse esattamente l’obiettivo, penso che capiremo le ragioni più avanti. Non posso dire che Memorial sia stato chiuso per via della guerra in Ucraina. Passo dopo passo hanno chiuso tutte le Ong, tutte le organizzazioni della stampa indipendente, in pratica era una questione di tempo. Ma quando lo hanno deciso, è avvenuto molto rapidamente, in un paio di mesi era finita».

L’immagine di Stalin torna ad essere glorificata oggi in Russia?
«Bisogna fare una precisazione importante: non posso dire che questo sia uno Stalin reale. Lo stesso Putin, nel suo problematico discorso storico, non lo glorifica affatto. Tutto questo è iniziato prima di Putin, ai tempi di Breznev, quando Stalin era un simbolo dello Stato stesso. L’idea di Stalin e l’idea dello Stato sono sempre state grandi e pompose, ma astratte. Ma non è la figura storica che conta, Stalin è l’immagine dello Stato vittorioso, della vittoria stessa. E adesso è finita. Abbiamo vissuto l’ultimo 9 maggio del nostro tempo».

In che senso?
«In Russia, quando diciamo che qualcuno era un eroe della guerra, o parliamo di “prima” o “dopo la Guerra”, ci riferiamo sempre della Grande Guerra Patriottica, anche se abbiamo avuto la guerra in Afghanistan, la guerra in Cecenia e molti conflitti regionali, però pensiamo sempre a quella Guerra con la G maiuscola. Adesso invece abbiamo una guerra che annulla in qualche modo tutte le cose buone della Grande Guerra Patriottica. Anche per le persone più scettiche e di sinistra, per quanto problematica la Grande Guerra Patriottica era qualcosa di molto importante. Ma ora, anche se Putin perdesse il potere l’anno prossimo o quello dopo, questa giornata come parte della Grande Storia russa è finita».

Il presente della guerra ha cambiato la memoria del passato?
«Non solo la memoria, ma il suo senso. Il senso che eravamo nel giusto, che eravamo vittoriosi perché il nostro obiettivo più grande. Il nostro orgoglio più grande era di aver vinto contro il fascismo…»

Gli archivi di Memorial sono in pericolo adesso?
«Gli archivi stessi sono in salvo, abbiamo archivi digitali, libri, attivisti, non perderemo queste cose. Spero che abbiamo realizzato delle cose che non possono essere cambiate, ma la domanda è: se e quando la situazione politica cambierà, possiamo fare qualcosa per rivitalizzare il lavoro pubblico di Memorial? Avremo ancora un’organizzazione? Non sono sicuro di avere una risposta. Per ora non esistiamo come organizzazione come due o tre mesi fa, ma siamo le stesse persone, partecipo agli stessi incontri via zoom, non sono a Mosca ma ho la mia versione digitale degli archivi. Come gruppo per un paio di anni avremo lavoro da fare, ma quel che resta da vedere è come funzionerà l’organizzazione».

Quando parla di cambiamento politico in Russia, cosa immagina?
«È davvero difficile per me immaginare quanto a lungo continuerà questa situazione. È difficile predire come le cose possano cambiare in meglio. Prego che la Russia come Stato perda questa guerra. Un mese e mezzo fa speravo che l’Occidente potesse vendere a Putin una idea di accordo di pace che lui a sua volta potesse vendere al pubblico russo come una sua vittoria, ma ora non riesco più a immaginare come ciò sia possibile. Forse ci sarà una guerra civile in Russia oppure la guerra in Ucraina continuerà per anni».

Fino a che punto la società russa ha elaborato la memoria del passato? I russi credono a Putin oppure no?
«La mia impressione è che la maggior parte delle persone conoscano più o meno la Storia della loro famiglia. In Russia è difficile immaginare che la tua famiglia — se prendi in considerazione gli ultimi cento anni — non abbia legami con le purghe e le repressioni dell’era Stalin o che non abbia perso qualcuno nella Grande Guerra Patriottica. In molti casi sono vere entrambe le cose. Ma quel che conta è l’interpretazione degli eventi, come sono connessi o meno. La battaglia principale che continua tuttora riguarda una domanda: possiamo separare noi stessi dallo Stato e dire che la nostra memoria come popolo consiste nel ricordare che lo Stato ha ucciso una grossa parte della società? Possiamo ricordare il passato così? Questa è la domanda principale. Molte persone non hanno smesso di credere a Putin e non sono contro la guerra. Pensano a sangue freddo che non possono farci nulla e quindi preferiscono ignorare queste cose. È come dire: so che nella mia famiglia mio padre o mio nonno sono stati uccisi dallo Stato, ma cosa posso fare? Ormai sono morti, e so che lo Stato è più forte. Se ricordi, puoi cercare di capire, tramandare la storia ai tuoi figli. Ma per molte persone resta dominante questo senso di impossibilità di agire, questa mancanza di comunicazione sociale. Lo Stato è tutto in Russia».

12 maggio 2022 (modifica il 12 maggio 2022 | 01:50)

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, 2022-05-11 23:50:00, Segej Bondarenko ha documentato e insegnato la storia dello stalinismo e spiega perché ricercatori come lui agli occhi del Cremlino sono pericolosi. «Volevamo raccontare come i gulag fossero un’idea statale. Ma lo Stato è tutto in Russia», Viviana Mazza

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