Meridione, il nodo balneare

Mezzogiorno, 27 maggio 2022 – 09:15 di Emanuele Imperiali L’interrogativo che in molti si pongono è come mai su un tema come le concessioni balneari si rischiano addirittura l’aut aut della Commissione Europea e la crisi di governo, con le conseguenze di una perdita dei fondi del Pnrr. Un fragile accordo di maggioranza raggiunto sul filo del rasoio non mette certo al riparo la norma da nuove imboscate e colpi di mano quando dovranno essere adottati i decreti delegati entro la fine dell’anno. È un tema che riguarda certo l’intera Italia ma soprattutto il Sud, che ha tantissimi chilometri di coste e dove una significativa percentuale di pil ancora oggi si ottiene dal fatturato turistico. Basta andarsi a rileggere i dati di due regioni importanti del Mezzogiorno per rendersene pienamente conto. I numeri, come sempre, sono lì a testimoniarlo: la Campania ha ben 140 chilometri di coste, sulle quali le concessioni balneari sono estremamente frammentate, molto più che al Centro Nord, addirittura 916. In Puglia il contesto è analogo: 303 chilometri di coste e 968 concessionari. Sono anni che l’Europa sollecita l’Italia al rispetto delle regole comunitarie in materia di libertà di concorrenza, uno dei principi fondamentali dell’Ue. La vicenda ha avuto nel corso del tempo numerosi strascichi giudiziari finché il Consiglio di Stato non è intervenuto con una sentenza definitiva nelle quale impone che siano effettuate le gare tra coloro che aspirano a prendere in concessione un tratto demaniale delle nostre spiagge. I governi che si sono succeduti hanno sempre nicchiato su questo punto, estremamente divisivo tra le forze politiche, perché c’è in gioco un vasto consenso elettorale. È toccato a un governo tecnico nato da una larghissima maggioranza intervenire sia per sbloccare una situazione che si trascinava da troppo tempo senza dare attuazione alla sentenza del massimo tribunale amministrativo, sia perché la legge sulla concorrenza è una delle richieste più pressanti di Bruxelles alla quale sono condizionate gran parte delle risorse del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. Mario Draghi non ci ha pensato su due volte e ha inserito l’obbligatorietà delle gare aperte a candidati di tutt’Europa e non solo italiani nella nuova legge sulla concorrenza, fissando anche una scadenza inderogabile per le attuali concessioni balneari, a fine 2023. Apriti cielo, si è scatenato un putiferio, al quale non sono certo estranee le forze che appoggiano l’esecutivo, in particolare di centro-destra ma non solo. Come sempre quando gli interessi in campo sono forti nessuno vuol recedere di un millimetro dalle proprie richieste. I concessionari dei lidi non temono soltanto che con le gare europee siano in pochi i grandi gruppi che si aggiudicheranno le spiagge più ambite e succulente sotto il profilo dei ricavi – basti pensare a Capri, Positano, Ischia, la costiera cilentana e così via – ma che aumentino esponenzialmente le tariffe con una pesante contrazione dei ricavi. Attualmente in Italia il giro d’affari del settore è stato valutato dai giudici di Palazzo Spada intorno ai 15 miliardi mentre lo Stato ricava poco più di 100 milioni da quasi 27mila concessioni sull’intero territorio nazionale. Un fatto è certo, nessun settore che si basa su un bene immobile, come spiagge e insediamenti turistici, ha un rapporto così sbilanciato tra costi e ricavi. Ecco perché i concessionari balneari sono sul piede di guerra. In Campania si tratta di circa 600 imprese con diecimila addetti. In Puglia gli occupati negli stabilimenti sono circa 3600 con un numero difficile da quantificare di piccoli e piccolissimi operatori, alcuni dei quali gestiscono anche pezzi molto limitati di litorale. Senza considerare il vastissimo indotto, per cui non si è lontani dalla verità se si afferma che sono parecchie decine di migliaia coloro che nel meridione traggono il loro sostentamento da queste attività, il più delle volte al nero. C’è però una diversità di non poco conto tra le due regioni. In Puglia da 15 anni, grazie alla legge regionale del 2006, vige il principio del diritto di accesso al mare per tutti, fissando una percentuale di spiagge libere pari al 60%, superiore rispetto a quel 40% da poter dare in concessione. In modo diametralmente opposto si comporta la Campania che ha imposto un limite minimo di appena il 20% della linea di costa dedicato a spiagge libere, che stanno ormai sparendo e il più delle volte sono abbandonate all’incuria. Il presidente del Consiglio sa che è in gioco la credibilità dell’Italia, con rischi reali di vedersi decurtare i finanziamenti dei quali il Paese, a partire proprio dal Sud, ha un estremo bisogno. Le categorie e le forze politiche non demordono perché in campo ci sono potenti lobbies e finora le spinte corporative hanno quasi sempre avuto la meglio sugli interessi generali della nazione. 27 maggio 2022 | 09:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-27 07:15:00, Mezzogiorno, 27 maggio 2022 – 09:15 di Emanuele Imperiali L’interrogativo che in molti si pongono è come mai su un tema come le concessioni balneari si rischiano addirittura l’aut aut della Commissione Europea e la crisi di governo, con le conseguenze di una perdita dei fondi del Pnrr. Un fragile accordo di maggioranza raggiunto sul filo del rasoio non mette certo al riparo la norma da nuove imboscate e colpi di mano quando dovranno essere adottati i decreti delegati entro la fine dell’anno. È un tema che riguarda certo l’intera Italia ma soprattutto il Sud, che ha tantissimi chilometri di coste e dove una significativa percentuale di pil ancora oggi si ottiene dal fatturato turistico. Basta andarsi a rileggere i dati di due regioni importanti del Mezzogiorno per rendersene pienamente conto. I numeri, come sempre, sono lì a testimoniarlo: la Campania ha ben 140 chilometri di coste, sulle quali le concessioni balneari sono estremamente frammentate, molto più che al Centro Nord, addirittura 916. In Puglia il contesto è analogo: 303 chilometri di coste e 968 concessionari. Sono anni che l’Europa sollecita l’Italia al rispetto delle regole comunitarie in materia di libertà di concorrenza, uno dei principi fondamentali dell’Ue. La vicenda ha avuto nel corso del tempo numerosi strascichi giudiziari finché il Consiglio di Stato non è intervenuto con una sentenza definitiva nelle quale impone che siano effettuate le gare tra coloro che aspirano a prendere in concessione un tratto demaniale delle nostre spiagge. I governi che si sono succeduti hanno sempre nicchiato su questo punto, estremamente divisivo tra le forze politiche, perché c’è in gioco un vasto consenso elettorale. È toccato a un governo tecnico nato da una larghissima maggioranza intervenire sia per sbloccare una situazione che si trascinava da troppo tempo senza dare attuazione alla sentenza del massimo tribunale amministrativo, sia perché la legge sulla concorrenza è una delle richieste più pressanti di Bruxelles alla quale sono condizionate gran parte delle risorse del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. Mario Draghi non ci ha pensato su due volte e ha inserito l’obbligatorietà delle gare aperte a candidati di tutt’Europa e non solo italiani nella nuova legge sulla concorrenza, fissando anche una scadenza inderogabile per le attuali concessioni balneari, a fine 2023. Apriti cielo, si è scatenato un putiferio, al quale non sono certo estranee le forze che appoggiano l’esecutivo, in particolare di centro-destra ma non solo. Come sempre quando gli interessi in campo sono forti nessuno vuol recedere di un millimetro dalle proprie richieste. I concessionari dei lidi non temono soltanto che con le gare europee siano in pochi i grandi gruppi che si aggiudicheranno le spiagge più ambite e succulente sotto il profilo dei ricavi – basti pensare a Capri, Positano, Ischia, la costiera cilentana e così via – ma che aumentino esponenzialmente le tariffe con una pesante contrazione dei ricavi. Attualmente in Italia il giro d’affari del settore è stato valutato dai giudici di Palazzo Spada intorno ai 15 miliardi mentre lo Stato ricava poco più di 100 milioni da quasi 27mila concessioni sull’intero territorio nazionale. Un fatto è certo, nessun settore che si basa su un bene immobile, come spiagge e insediamenti turistici, ha un rapporto così sbilanciato tra costi e ricavi. Ecco perché i concessionari balneari sono sul piede di guerra. In Campania si tratta di circa 600 imprese con diecimila addetti. In Puglia gli occupati negli stabilimenti sono circa 3600 con un numero difficile da quantificare di piccoli e piccolissimi operatori, alcuni dei quali gestiscono anche pezzi molto limitati di litorale. Senza considerare il vastissimo indotto, per cui non si è lontani dalla verità se si afferma che sono parecchie decine di migliaia coloro che nel meridione traggono il loro sostentamento da queste attività, il più delle volte al nero. C’è però una diversità di non poco conto tra le due regioni. In Puglia da 15 anni, grazie alla legge regionale del 2006, vige il principio del diritto di accesso al mare per tutti, fissando una percentuale di spiagge libere pari al 60%, superiore rispetto a quel 40% da poter dare in concessione. In modo diametralmente opposto si comporta la Campania che ha imposto un limite minimo di appena il 20% della linea di costa dedicato a spiagge libere, che stanno ormai sparendo e il più delle volte sono abbandonate all’incuria. Il presidente del Consiglio sa che è in gioco la credibilità dell’Italia, con rischi reali di vedersi decurtare i finanziamenti dei quali il Paese, a partire proprio dal Sud, ha un estremo bisogno. Le categorie e le forze politiche non demordono perché in campo ci sono potenti lobbies e finora le spinte corporative hanno quasi sempre avuto la meglio sugli interessi generali della nazione. 27 maggio 2022 | 09:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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