Leo Messi, campione emotivo: il rischio della nostalgia per un Mondiale mai vinto

di Aldo Cazzullo

Preso di mira da piccolo, non ha mai rinunciato alla sua identità rosarina. È stato decisivo nel successo contro il Messico, ma con questa modesta Argentina tutto lascia credere che la sua definitiva consacrazione con la maglia albiceleste non arriverà neppure stavolta

Chiunque abbia conversato con Messi sa che non parla spagnolo, ma argentino, anzi rosarino. Il suo aggettivo preferito è «espectacular», che però lui pronuncia petacular, mangiandosi tre lettere. Anziché «trabajar» dice laburar. A chi gli chiede notizie del primogenito Thiago risponde, tutto fiero: «Le gusta el fulbo », che significa «gli piace il calcio» ma non in castigliano, in un dialetto sudamericano. Messi se n’è andato a tredici anni, è cresciuto – in ogni senso – nel Barcellona, vive a Parigi; ma è come se non fosse mai partito da Rosario. Vale per lui quel che scrisse Kavafis: «La città ti verrà dietro, andrai vagando per le stesse strade, invecchierai nello stesso quartiere».

Eppure,nonostante i 93 gol segnati in nazionale, da ultimo quello al Messico decisivo per tenere in vita le speranze dell’Argentina, Leo – ma i compatrioti lo chiamano Lio – ha dovuto lottare moltissimo per dissipare l’aura di espatriato, se non di traditore. Non era freddezza, era il contrario, emotività : con la Albiceleste non è riuscito sempre a dare il massimo, proprio perché ci teneva troppo. E poi il peso della consacrazione, quella Coppa conquistata da Maradona ma non da lui, è sempre stato terribile. Ai Mondiali in Brasile, gli unici in cui arrivò in finale, vomitava in campo. Così più volte il Clarin si è sentito in dovere di titolare «Messi es argentino», «Messi uno de nosostros» e pure «Messi es tan argentino como el que más»: nessuno è più argentino di lui.

Viene da Rosario, come quasi tutti i grandi del fulbo – El Flaco Menotti, Batistuta, El Loco Bielsa, Mascherano, El Pocho Lavezzi, Maxi Rodriguez, El Fideo Di Maria, Icardi… – e come Che Guevara. Da bambino era pieno di complessi. Non voleva andare a scuola. Faticava a esprimersi. Aveva una sola amica, Cintia, che gli mandava i messaggini attaccati al righello con il chewing-gum, lo portava in giro per mano e spiegava ai compagni cosa intendesse dire; ora fa la psicologa e aiuta i bambini con difficoltà di apprendimento. Il piccolo Messi la adorava, e la adora. Ma amava un’altra bambina: Antonella Roccuzzo. L’aveva conosciuta quando entrambi avevano cinque anni, e l’ha sempre corteggiata in silenzio. Lei però non voleva saperne di quel disadattato che tutti prendevano in giro e aveva sempre in braccio un pallone. La squadra in cui giocava, il Newell’s, non accettò di aiutare la famiglia a pagare le iniezioni dell’ormone della crescita di cui aveva bisogno. Così Leo partì per l’Europa. Senza diventare spagnolo, né catalano, né tanto meno italiano: sia i Messi sia la famiglia di sua madre, i Cuccittini, sono marchigiani di origine; ma a lui non importa nulla.

La prima delle tante crisi di vomito, seguita da una crisi di pianto, la ebbe sul volo che lo portava oltre l’oceano. Nei primi anni di esilio, per quanto dorato, passava tutte le serate in un ristorante argentino di Barcellona, Las Cuartetas, in Carrer de Santalò; poi ne scoprì un altro in un paese in provincia di Girona, Hostalrich, e faceva 70 chilometri per andare a mangiare l’asado. In 29 mesi crebbe di 29 centimetri. Tornò a Rosario da benestante e da astro nascente del calcio. Antonella scoprì di essere da sempre innamorata di lui. Ora hanno tre figli (ci sono anche Mateo e Ciro).

Vedere le foto di Messi da giovane calciatore è impressionante. Dieci ragazzi, quasi uomini. E un bambino con il volto nascosto da una maschera. Dal campetto del Grandoli, in Argentina, tutto buche, sassi e pezzi di vetro, alla cantera del club allora più ricco al mondo; ma sempre solo. Si cambiava in un angolo dello spogliatoio. Durante le pause gli altri uscivano dal campo; lui rimaneva ad aspettare in piedi con il pallone sottobraccio. Divenne un campione anche di PlayStation. I compagni lo chiamavano «Enano», «il nano», ricevendo incomprensibili insulti in rosarino, e gli facevano scherzi feroci. Un giorno, in un albergo di Pisa dove il Barcellona Juniors giocava un torneo, Piqué gli portò via tutto dalla stanza, anche il telefonino e appunto la Play. Lui scappò via e si mise a piangere disperatamente. Piqué riprese la scena con il telefonino. Gliela mostrarono. Un compagno più pietoso dovette portarlo a braccia in camera a riposare. Poi però, quando vide che gli avversari del Damm si accanivano su di lui, Piqué fece a pugni per difenderlo.

Il rito dell’asado continuò. Ogni lunedì Messi invitava a casa suo fratello maggiore Rodrigo, il suo migliore amico Pablo Zabaleta che giocava nell’altra squadra di Barcellona, l’Espanyol, e altri due colleghi argentini, Martìn Posse e Oscar Ustari. Non sapeva cucinare, non sapeva neanche dove fossero le posate e i piatti, ma le mangiate di carne servivano a lenire la nostalgia più profonda: quella che si prova per ciò che si è perso, che non si è vissuto, che non si conoscerà mai. Una nostalgia che per Messi diventerebbe ancora più grande se, come molto (ma non tutto) lascia credere, la consacrazione mondiale non dovesse arrivare neppure stavolta. Di sicuro, questa finora modesta Argentina può solo crescere.

27 novembre 2022 (modifica il 27 novembre 2022 | 21:32)

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, 2022-11-27 20:32:00, Preso di mira da piccolo, non ha mai rinunciato alla sua identità rosarina. È stato decisivo nel successo contro il Messico, ma con questa modesta Argentina tutto lascia credere che la sua definitiva consacrazione con la maglia albiceleste non arriverà neppure stavolta, Aldo Cazzullo

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