Mezzogiorno, 25 marzo 2022 – 08:29 di Paolo Macry L’ultima boutade della monarchia deluchiana è nota. Un paio di giorni fa, il rettore del salernitano Convitto Tasso revoca il permesso di presentare nei suoi locali l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone. Motivo? Gli organizzatori dell’evento hanno scritto una lettera pubblica di critica a Vincenzo De Luca. E questo, dichiara candidamente al Corriere del Mezzogiorno il rettore, «non mi è piaciuto». Che il Regno del Principato Citeriore sia allergico al libero dibattito delle idee, del resto, non è una novità. L’anno scorso, quando il neo-presidente della Fondazione Ravello Antonio Scurati aveva invitato al Festival Roberto Saviano, era scattato puntuale il veto di palazzo Santa Lucia. E come si conviene a ogni autocrate, De Luca aveva voluto metterci la faccia. «Tutto quello che finanzia la Regione Campania — aveva dichiarato — non deve essere l’occasione per promuovere un sistema di relazioni personali o per passare qualche giorno di ferie a spese della Regione». Un approccio putinista al dissenso? No, perché lo stesso De Luca ha poi voluto difendere la presenza a quel medesimo Festival del direttore d’orchestra Valery Gergiev, amico personale e sostenitore dello Zar di Russia che nelle circostanze dell’aggressione all’Ucraina era stato allontanato dal newyorkese Carnegie Hall e poi dalla Scala di Milano. «In ragione di una mera appartenenza nazionale non si possono discriminare i musicisti», ha spiegato Dino Falconio, il nuovo presidente della Fondazione Ravello. Come se Isaia Sales o Galli della Loggia o Schiavone o Saviano fossero più imbarazzanti di Vladimir Putin. Il fatto è che, di fronte alle esternazioni di De Luca, si resta spesso senza parole. Perché, giuste o sbagliate che siano, appaiono comunque improvvide, vagamente naïf . Viene il sospetto che il presidente (pardon, governatore) della Campania non sia quel robusto politico di lungo corso di cui si dice. Che, al contrario, la sua capacità politica — e cioè la capacità di leggere e governare la complessità della cosa pubblica — sia straordinariamente fragile. Che sia cioè un politico mediocre, il quale si limita a sollecitare gli umori malmostosi della gente, proponendo la facile demagogia dell’uomo forte e costruendo (costose) bolle mediatiche sui social. Non diversamente, a ben vedere, da un altro leader che un paio di anni fa sembrava avere vasti consensi grazie ai suoi proclami roboanti e poi si è sciolto come neve al sole. Un altro politico povero di politica. Matteo Salvini. De Luca e Salvini hanno in comune l’inadeguatezza politica. Dell’inadeguatezza del presidente della Campania si potrebbero portare numerose prove. Si pensi alla sua incapacità di governare una regione fortemente disomogenea, se non distribuendo risorse ai territori delle proprie clientele. O all’ingenuità di affrontare i nodi di una metropoli in crisi come Napoli con qualche mortificazione simbolica o finanziaria (ricordiamo tutti il caso deplorevole del San Carlo). Approcci di corto respiro a problemi complessi, frutto di mediocri furbizie più che di comprensione politica. Si pensi, non di meno, alla sua gestione della pandemia, un’evenienza epocale che avrebbe richiesto vista lunga e grande cautela e che invece il «governatore» ha voluto affrontare col solito piglio autocratico, usando la cifra dell’allarmismo, tenendo chiuse le scuole come in nessun’altra regione, arrivando perfino ad acquistare in gran fretta quel vaccino russo che l’Ema non aveva neppure (e non avrebbe mai) accreditato. Anche in questo caso, stupisce la straordinaria sproporzione tra la complessità dei problemi e le soluzioni messe in atto. Sarebbe servita la politica. Lo sguardo del politico. La sapienza di una professione nobile come poche. Ma De Luca non sembra avere queste frecce al proprio arco. E del resto chi può passare sotto silenzio le sue dichiarazioni ufficiali in questi ultimi giorni, nei giorni drammatici dell’aggressione russa, nella temperie di un’unità nazionale che il parlamento tutto ha coraggiosamente affermato – cioè «votato» — più di una volta? Quasi fosse il premier di uno stato nello stato, De Luca ha voluto invece bacchettare l’Occidente, accusandolo delle «guerre preventive» in Irak e Afghanistan, ricordando il bombardamento di Belgrado, avanzando addirittura il sospetto di «una guerra per procura». Ha inteso entrare ruvidamente in polemica con la linea del governo e del parlamento. «Dubito che l’invio di armi contribuirà al dialogo tra le parti», ha detto. «L’Italia ha avuto inizialmente una posizione prudente, ma adesso sembra che voglia essere la nazione più oltranzista». Parole che, comunque le si valuti nel merito, appaiono inaccettabili sul piano istituzionale. De Luca è il presidente di una grande regione italiana, non un qualunque polemista da talkshow. Ha competenze e responsabilità specifiche, e servirebbe ben altra intelligenza politica per capire che, tanto più in un momento di gravità storica, uno stato democratico deve poter contare sulla compostezza dei suoi organi e dei suoi governanti. A De Luca bisognerebbe ricordare, a meno che non si sia convertito alla religione grillina dell’uno vale uno, che c’è una differenza formale e sostanziale tra il suo ruolo e il ruolo di Sergio Mattarella, tra la Campania e l’Italia. «Siamo una nazione, non venti piccole patrie», dovette bruscamente dirgli, una volta, il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La gestione politica e amministrativa di palazzo Santa Lucia tocca infatti un problema generale e controverso. Costituisce il caso forse più vistoso (insieme alla Puglia di Emiliano) dei problemi tuttora irrisolti che il paese vive nel rapporto tra centro e periferie, tra Stato e Regioni. Se il suo avatar Salvini ha voluto battere sul tasto del sovranismo antieuropeo, De Luca batte su una sorta di sovranismo regionale. Su un autonomismo antistatale che finisce per rompere e confondere i confini della responsabilità politica e che rischia continuamente di mettere in questione la coesione stessa del paese. Ma, come quella del leader leghista, la strategia di De Luca si rivela povera e priva di prospettive. La politica dovrebbe trovare soluzioni ai problemi, non utilizzare i problemi per raccogliere consensi effimeri. 25 marzo 2022 | 08:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-03-25 07:29:00, Mezzogiorno, 25 marzo 2022 – 08:29 di Paolo Macry L’ultima boutade della monarchia deluchiana è nota. Un paio di giorni fa, il rettore del salernitano Convitto Tasso revoca il permesso di presentare nei suoi locali l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone. Motivo? Gli organizzatori dell’evento hanno scritto una lettera pubblica di critica a Vincenzo De Luca. E questo, dichiara candidamente al Corriere del Mezzogiorno il rettore, «non mi è piaciuto». Che il Regno del Principato Citeriore sia allergico al libero dibattito delle idee, del resto, non è una novità. L’anno scorso, quando il neo-presidente della Fondazione Ravello Antonio Scurati aveva invitato al Festival Roberto Saviano, era scattato puntuale il veto di palazzo Santa Lucia. E come si conviene a ogni autocrate, De Luca aveva voluto metterci la faccia. «Tutto quello che finanzia la Regione Campania — aveva dichiarato — non deve essere l’occasione per promuovere un sistema di relazioni personali o per passare qualche giorno di ferie a spese della Regione». Un approccio putinista al dissenso? No, perché lo stesso De Luca ha poi voluto difendere la presenza a quel medesimo Festival del direttore d’orchestra Valery Gergiev, amico personale e sostenitore dello Zar di Russia che nelle circostanze dell’aggressione all’Ucraina era stato allontanato dal newyorkese Carnegie Hall e poi dalla Scala di Milano. «In ragione di una mera appartenenza nazionale non si possono discriminare i musicisti», ha spiegato Dino Falconio, il nuovo presidente della Fondazione Ravello. Come se Isaia Sales o Galli della Loggia o Schiavone o Saviano fossero più imbarazzanti di Vladimir Putin. Il fatto è che, di fronte alle esternazioni di De Luca, si resta spesso senza parole. Perché, giuste o sbagliate che siano, appaiono comunque improvvide, vagamente naïf . Viene il sospetto che il presidente (pardon, governatore) della Campania non sia quel robusto politico di lungo corso di cui si dice. Che, al contrario, la sua capacità politica — e cioè la capacità di leggere e governare la complessità della cosa pubblica — sia straordinariamente fragile. Che sia cioè un politico mediocre, il quale si limita a sollecitare gli umori malmostosi della gente, proponendo la facile demagogia dell’uomo forte e costruendo (costose) bolle mediatiche sui social. Non diversamente, a ben vedere, da un altro leader che un paio di anni fa sembrava avere vasti consensi grazie ai suoi proclami roboanti e poi si è sciolto come neve al sole. Un altro politico povero di politica. Matteo Salvini. De Luca e Salvini hanno in comune l’inadeguatezza politica. Dell’inadeguatezza del presidente della Campania si potrebbero portare numerose prove. Si pensi alla sua incapacità di governare una regione fortemente disomogenea, se non distribuendo risorse ai territori delle proprie clientele. O all’ingenuità di affrontare i nodi di una metropoli in crisi come Napoli con qualche mortificazione simbolica o finanziaria (ricordiamo tutti il caso deplorevole del San Carlo). Approcci di corto respiro a problemi complessi, frutto di mediocri furbizie più che di comprensione politica. Si pensi, non di meno, alla sua gestione della pandemia, un’evenienza epocale che avrebbe richiesto vista lunga e grande cautela e che invece il «governatore» ha voluto affrontare col solito piglio autocratico, usando la cifra dell’allarmismo, tenendo chiuse le scuole come in nessun’altra regione, arrivando perfino ad acquistare in gran fretta quel vaccino russo che l’Ema non aveva neppure (e non avrebbe mai) accreditato. Anche in questo caso, stupisce la straordinaria sproporzione tra la complessità dei problemi e le soluzioni messe in atto. Sarebbe servita la politica. Lo sguardo del politico. La sapienza di una professione nobile come poche. Ma De Luca non sembra avere queste frecce al proprio arco. E del resto chi può passare sotto silenzio le sue dichiarazioni ufficiali in questi ultimi giorni, nei giorni drammatici dell’aggressione russa, nella temperie di un’unità nazionale che il parlamento tutto ha coraggiosamente affermato – cioè «votato» — più di una volta? Quasi fosse il premier di uno stato nello stato, De Luca ha voluto invece bacchettare l’Occidente, accusandolo delle «guerre preventive» in Irak e Afghanistan, ricordando il bombardamento di Belgrado, avanzando addirittura il sospetto di «una guerra per procura». Ha inteso entrare ruvidamente in polemica con la linea del governo e del parlamento. «Dubito che l’invio di armi contribuirà al dialogo tra le parti», ha detto. «L’Italia ha avuto inizialmente una posizione prudente, ma adesso sembra che voglia essere la nazione più oltranzista». Parole che, comunque le si valuti nel merito, appaiono inaccettabili sul piano istituzionale. De Luca è il presidente di una grande regione italiana, non un qualunque polemista da talkshow. Ha competenze e responsabilità specifiche, e servirebbe ben altra intelligenza politica per capire che, tanto più in un momento di gravità storica, uno stato democratico deve poter contare sulla compostezza dei suoi organi e dei suoi governanti. A De Luca bisognerebbe ricordare, a meno che non si sia convertito alla religione grillina dell’uno vale uno, che c’è una differenza formale e sostanziale tra il suo ruolo e il ruolo di Sergio Mattarella, tra la Campania e l’Italia. «Siamo una nazione, non venti piccole patrie», dovette bruscamente dirgli, una volta, il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La gestione politica e amministrativa di palazzo Santa Lucia tocca infatti un problema generale e controverso. Costituisce il caso forse più vistoso (insieme alla Puglia di Emiliano) dei problemi tuttora irrisolti che il paese vive nel rapporto tra centro e periferie, tra Stato e Regioni. Se il suo avatar Salvini ha voluto battere sul tasto del sovranismo antieuropeo, De Luca batte su una sorta di sovranismo regionale. Su un autonomismo antistatale che finisce per rompere e confondere i confini della responsabilità politica e che rischia continuamente di mettere in questione la coesione stessa del paese. Ma, come quella del leader leghista, la strategia di De Luca si rivela povera e priva di prospettive. La politica dovrebbe trovare soluzioni ai problemi, non utilizzare i problemi per raccogliere consensi effimeri. 25 marzo 2022 | 08:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,