Mosca, un bus arrugginito per portare le reclute del Donbass

di Marco Imarisio, inviato a Mosca

Viaggio in un centro di reclutamento nella capitale russa fra chi riesce a sottrarsi grazie agli studi e chi è rassegnato a partire

«Donbass». I due uomini sono scesi dal bus per sgranchirsi le gambe. Hanno carnagione olivastra, sono vestiti con abiti lisi e sporchi, indossano maglioni sformati che hanno conosciuto tempi migliori. Sanno poche parole di russo, tra loro parlano in un’altra lingua. Sui fogli che tengono in mano c’è l’intestazione del distretto federale dell’Estremo Oriente, che con ogni probabilità indica il loro luogo di origine. Uno di loro, il più giovane, fa segno che stanno per andare lontano. «Donbass» ripete ancora, con uno sguardo pieno di rassegnazione.

Piove, sta piovendo da giorni. Il viale è spazzato da un vento gelido. Ogni cosa dentro e intorno al Centro di reclutamento sul Butyrskij Val, una grande arteria che conduce verso le tangenziali, fa pensare a una pianta sciupata che sta appassendo. L’ingresso è nel cortile interno di un edificio dalla facciata malconcia. Ragazzi con uno zaino in mano, qualche loro genitore in ansia, che viene tenuto fuori, oltre la sbarra del parcheggio. Dall’altra parte ci sono i binari della ferrovia. «Vietato entrare» recita il cartello appeso alla porta metallica che conduce al seminterrato. Le scale sono male illuminate. Da qui in poi, passa solo chi ha ricevuto la povestka, la lettera di convocazione.

Ad attendere i nuovi coscritti per portarli al corso di addestramento in una caserma fuori Mosca, questo il massimo che è dato sapere, c’è un reperto storico che risale alla fine dell’Unione Sovietica. Il bus un tempo bianco accostato al marciapiede ha le fiancate rese grigie dallo sporco e dalla polvere. La carrozzeria mostra lunghe strisce di ruggine, così come i cerchioni delle ruote. Per oscurare i finestrini posteriori sono stati stesi dall’interno dei sacchi di nylon nero. La pedana dalla quale si entra e si esce è coperta con uno straccio ormai ridotto a brandelli. È un modello 3205 della Pavlovskij Avtozavod, prodotto nella regione di Nizhnij Novgorod, che la gente comune chiama con il diminutivo di Pazik. Entrò in produzione proprio nel fatidico 1989. Questo dimostra almeno venti-venticinque anni, se non di più. Gli unici suoi due passeggeri ci hanno caricato sopra tutti i loro beni. Una trapunta a fiori, un fornelletto, un sacco pieno di vestiti. Nient’altro. L’autista di Avtodor, una società di trasporti per autostrade, è impaziente. Dice che la destinazione gli viene comunicata sempre al momento della partenza da un funzionario che viaggia con lui.

Le due reclute orientali chiedono sigarette ai passanti e guardano gli altri che escono dal Centro. I più giovani hanno espressioni felici mentre informano i genitori su come è andata. Sono venuti a portare il certificato che attesta l’iscrizione all’università. «Non ci hanno detto niente, ma ci hanno lasciato andare, che mi sembra già un bel risultato» scherza un ragazzone alto e biondo, inglese fluente e addosso un giaccone Nike che da solo costerà il triplo degli indumenti delle due reclute orientali. Un gigante con i capelli brizzolati e parecchi anni in più, ha un sorriso ancora più largo. Nella mano destra tiene ancora stretta la sua povestka. «Hanno preso i miei dati personali e mi hanno detto di non allontanarmi dalla città. Ma hanno anche aggiunto che siccome non ho alcuna esperienza militare, mi chiameranno solo se necessario».

Non esistono numeri ufficiali. Il canale Telegram «Vi possiamo spiegare» sostiene che a Mosca questa fase della mobilitazione riguarda 32.000 persone, l’un per cento della popolazione. Per ogni cittadino arruolato, l’amministrazione comunale ha promesso una ricompensa di 50.000 rubli al mese (l’equivalente di 850 euro). A chi sarà ferito in modo non grave andranno cinquecentomila rubli una tantum, 9.000 euro. L’invalidità permanente vale il doppio. In caso di morte, la famiglia del defunto riceverà 3 milioni di rubli, 54.000 euro. Ad Aleksandr, nome di fantasia, hanno detto di tornare qui entro le 18 con un bagaglio leggero. «Cristo santo. Certo che 15 anni fa ho firmato da riservista. Si diceva che la pensione dei genitori sarebbe aumentata di cinquemila rubli al mese, che all’epoca non era male. Papà è morto di cancro nel 2017. E io non tocco un’arma da un secolo». Gli hanno detto che partirà per l’Ucraina solo se accetterà di firmare un contratto. «Spero tanto di poter davvero scegliere».

Aleksandr se ne va con passo e pensieri pesanti sotto la pioggia battente, attaccato al telefono, come fanno tutti. Alcuni confidano nelle «eccezioni urgenti» che vengono pubblicate a getto continuo sul sito del ministero della Difesa. Per le due reclute in attesa è giunto il momento. Il funzionario si è seduto davanti, nella zona in chiaro, stringendo una cartelletta rossa tra le braccia. L’autista gira tre volte la chiave nel cruscotto, il motore tossisce. Lui impreca a voce alta. Dal finestrino aperto, chiede aiuto ai pochi presenti. Spingiamo.

5 ottobre 2022 (modifica il 5 ottobre 2022 | 07:06)

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, 2022-10-05 05:34:00, Viaggio in un centro di reclutamento nella capitale russa fra chi riesce a sottrarsi grazie agli studi e chi è rassegnato a partire, Marco Imarisio, inviato a Mosca

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