Negli Stati Uniti ci amano, ma oltre a cibo e arte sopravvive ancora lo stereotipo del Padrino

di Federico Rampini

Sanno che siamo capaci di pensare fuori dagli schemi. Non piace la bassa quota di donne ai vertici delle aziende

Elon Musk non è un tipo impressionabile. Eppure quando ha visto i numeri della nostra denatalità l’imprenditore più ricco del mondo ha reagito con sgomento: «Se continua così un giorno l’Italia non avrà più abitanti». Questo tweet recente del capo della Tesla si può leggere in positivo. Se dovessimo sparire davvero, gli mancheremmo. Cosa che non è vera per i cinesi o i russi, forse neppure per i francesi.

Un viaggio alla scoperta di quel che gli americani pensano di noi, offre tante notizie confortanti. Ci amano più che mai. Forse per ragioni un po’ scontate. A formare l’immagine del nostro carattere nazionale contribuiscono in modo sproporzionato l’arte e la cultura, la storia e il turismo, la moda, la gastronomia. Su altri fronti non hanno una grande opinione di noi. Negli ultimi mesi uno dei titoli più visibili sul notiziario Bloomberg era: «L’Italia è frenata da 2,6 milioni di persone che hanno rinunciato a lavorare» (il dato era ripreso dalla relazione del governatore della Banca d’Italia). Il fattore Draghi è stato finora un segno più, nella percezione dell’establishment politico e finanziario. Ma già spuntano nubi all’orizzonte, i rialzi dei tassi d’interesse hanno riportato l’attenzione sul debito pubblico italiano nei giornali che contano come The Wall Street Journal.

La nostra burocrazia ha una fama repellente. In economia e nella tecnologia non ci sappiamo vendere. Qui gli americani hanno un’idea precisa dei nostri difetti. Il sito businessculture.org che offre consulenza a chi investe all’estero mette in guardia imprenditrici e manager americane sul fatto che «in Italia è ancora inusuale trovare donne al vertice delle aziende e solo il 38% delle italiane lavora, una delle percentuali più basse in Europa». Un altro sito rivolto ai manager americani descrive così alcuni tratti della nostra business mentality: «Costruire rapporti personali molto stretti è importante nel mondo degli affari italiano. Vi serve una persona bene introdotta, per creare i legami di cui avete bisogno. L’apparenza, lo status e la gerarchia contano spesso più del contenuto. I processi decisionali possono essere lenti, e le pressioni per velocizzarli non sono gradite. Non cercate di organizzare riunioni di lavoro ad agosto…».

Noi e il Padrino

Non è vero tutto quel che pensano di noi. Gli stereotipi abbondano, e ci irritano. Più ci si allontana dalle coste e ci si addentra nella provincia americana, più affiorano le eredità del Padrino o dei Soprano, immagini datate e legate alla storia degli italo-americani. Per scavare sotto la superficie, dò la parola a testimoni d’eccezione. Sono grandi talenti italiani che lavorano da anni negli Stati Uniti e percepiscono ogni giorno il parere degli americani su di noi. Ho interpellato anche qualche americano speciale che funge da ambasciatore della nostra cultura qui. Renzo Piano ha disseminato delle sue opere il territorio Usa. Ammette che la sua visione è parziale perché ha contatti soprattutto con americani «illuminati» che dirigono università, musei, ospedali. La cosa che più apprezzano di noi? «Ci riconoscono un umanesimo istintivo. Pensano che siamo portatori di un pensiero trasversale e multiforme, interdisciplinare, ricco di valori. Voi italiani — dicono spesso — siete capaci di pensare fuori dagli schemi».

Riccardo Muti ha diretto per dodici anni l’orchestra di Philadelphia, da tredici dirige quella di Chicago. «Ricordo un’epoca in cui l’italianità era sinonimo di urlo, cuore in mano, lacrima facile, sbracatura, l’accezione peggiore dell’aggettivo melodrammatico. Oggi gli americani colti ci ammirano più di prima perché hanno una percezione più raffinata del nostro patrimonio». Muti apre una finestra su un altro tema da approfondire: «A Chicago oggi, per determinare quel che gli americani pensano di noi, contano le centinaia di nostri scienziati, ricercatori, medici, che lavorano qui».

Un altro direttore d’orchestra che ha consuetudine americana è Gianandrea Noseda, confermato alla guida della sinfonica nazionale di Washington. Aggiunge questa osservazione: «Nel campo artistico ci vedono come portatori di una tradizione illustre. Ma sono stupiti quando scoprono che oltre all’improvvisazione creativa possiamo essere disciplinati, organizzati, capaci di fare squadra, con attitudini manageriali applicate alla cultura. Queste sono qualità che non associano al carattere nazionale».

Nel cinema un frequentatore di lunga data dell’America profonda è il regista Pupi Avati. Trent’anni fa mise radici nel Mid-West americano, vi girò sei film. Dopo aver realizzato nel 1991 la biografia del jazzista Bix Beiderbecke, ha comprato la sua casa natale a Davenport nell’Iowa: uno Stato agricolo, lontano anni luce dalle élite di New York o Los Angeles. Sa quel che provano gli americani provinciali a contatto con noi: «Stupore per la nostra elasticità, la capacità italiana di immaginare sempre un piano B quando il piano A va a cozzare contro un ostacolo. Li colpisce anche l’ostentazione dei nostri limiti, l’ammissione dei nostri errori, al confronto con la loro autostima, il loro senso di appartenenza a una comunità o a un’impresa».

L’amore per la lingua

Un’ambasciatore della nostra cultura è lo scrittore Michael Frank, perfettamente bilingue, che divide la sua vita tra la California natale, il Village di New York, e Camogli. Parla di «una nuova ondata d’interesse per gli autori e soprattutto le autrici italiane, aperta da Elena Ferrante». Jonathan Galassi se ne intende, sia come presidente della casa editrice Farrar Straus & Giroux, sia come traduttore individuale di Leopardi, Montale, Primo Levi. «Il nostro Jonathan Franzen — dice — scrive una trilogia che è ispirata dalla Ferrante. Quello che piace è un’italianità che non si appiattisce sulle tendenze letterarie globali, e questa è la cifra distintiva di un’intera generazione di nuovi autori». Ne sa qualcosa anche un altro traduttore seriale di opere italiane in America, Michael F. Moore, che ha appena finito una nuova versione dei «Promessi Sposi» ed è subissato dalle richieste degli editori Usa.

Un segnale stupendo è il continuo aumento di coloro che decidono di studiare la nostra lingua. A differenza di lingue globali e «utilitaristiche» come mandarino o arabo, lo studio dell’italiano è disinteressato. Jhumpa Lahiri, autrice americana di origine indiana che vive a New York, spiega così la sua scelta: «Io scrivo in italiano per sentirmi libera».

Su cosa si nasconde dietro l’amore per la lingua, ho potuto organizzare un focus group in casa. Mia moglie è docente dell’Istituto di cultura italiano e ho intervistato i suoi studenti. Tracy, professoressa di francese, impara l’italiano «per avere accesso diretto alla vostra cultura, i film e la musica». Natasha, americana di origine russa: «Siete il popolo più simpatico, siete ospitali, vi piace condividere il vostro paese con gli altri». Vika, americana di origine ucraina: «Solo quando vengo in Italia mi sento rinascere, mi date una carica di energia». Il tono cambia quando la domanda non riguarda il loro parere, bensì ciò che pensa di noi l’americano medio. Phyllis confessa: «I miei amici americani pensano che siete ossessionati dalla moda, dal cibo, da una filosofia di vita godereccia». Elizabeth: «Per la massa degli americani siete il Padrino la Ferrari e Gucci; più tanta corruzione e inefficienza al governo».

In venticinque anni di vita newyorchese ha fatto collezione di luoghi comuni Emanuele Della Valle, figlio di Diego. «Uno stereotipo permanente — racconta — è che tutto in Italia deve essere idilliaco ed estremamente elegante. Vedi certe pubblicità: l’azione è lenta, avviene sotto una pergola, i giovani attori devono sembrare Marcello Mastroianni e Sophia Loren, con una linea genetica tracciabile a Lorenzo il Magnifico». Della Valle osserva che negli ultimi anni anche grazie a Milano come motore creativo europeo certi pregiudizi stanno cambiando, «Slow World e Modern Nation convivono nell’immagine che proiettiamo».

Un settore dove abbiamo vinto la sfida della seduzione è il cibo. Giovanni Colavita è il più grande importatore di prodotti alimentari made in Italy. La sua azienda creò nel 2001 un centro di formazione che sforna chef specializzati nel Culinary Institute of America. «A tavola — spiega Colavita — l’Italia è da tempo sinonimo di genuinità, semplicità, salute. Il vero trionfo è aver conservato questi tre elementi conquistando il settore della cucina alta. Nella ristorazione di lusso abbiamo spodestato i francesi».

Non solo moda

Riusciamo a spingerci oltre l’arte, la moda e la gastronomia? Un diplomatico italiano descrive la fatica per convincere gli americani che il made in Italy è anche tecnologia, che siamo una potenza nei macchinari, nella robotica. Questo è il terreno dove si addensano cattive notizie per la nostra reputazione. Lo conferma Guerrino De Luca, per molti anni chief executive della Logitech nella Silicon Valley. «Nel settore Big Tech dell’Italia non pensano nulla — dice — perché le nostre aziende sono poca cosa. Nella mappa globale delle tecnologie avanzate l’Italia non pesa quanto Israele o Taiwan. Il giudizio sul Paese non si applica agli individui italiani: abbiamo espresso il numero due di Amazon e il direttore finanziario di Apple». È d’accordo Pierluigi Zappacosta, che con altri ha fondato l’Issnaf, il network di scienziati italiani del Nordamerica. «Paghiamo il fatto che non esiste più nulla di paragonabile a ciò che fu l’Olivetti in California fino a quarant’anni fa. I nostri giovani ingegneri, pagati troppo poco in Italia, qui sono apprezzatissimi. Ma dopo aver ricevuto borse di studio e finanziamenti, se vogliono fondare una start-up la creano dove hanno fatto ricerca. Si americanizzano».

Un’angolatura molto particolare è l’immagine del nostro paese veicolata attraverso il successo degli italo-americani, una schiera che ormai include gran parte dell’establishment di sinistra (la presidente della Camera Nancy Pelosi) e di destra (il governatore della Florida Ron DeSantis o il giudice costituzionale Samuel Alito). L’effetto che ha il «loro» successo sulla «nostra» immagine? Lo riassume così la più celebre giornalista televisiva italo-americana, Maria Bartiromo di FoxNews: «Tutto questo successo viene attribuito all’educazione italo-americana, che è sinonimo di una forte etica del lavoro».

Una visita all’establishment Usa per sintetizzare ciò che pensa di noi, la faccio in compagnia di Nathalie Tocci. Esperta di geopolitica, direttrice dell’Istituto affari internazionali, la Tocci ha un incarico a Harvard. È una pendolare dell’Atlantico con accesso alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato. Per i suoi interlocutori l’Italia «rimane un enigma, a Washington ne vedono il ruolo potenziale in Europa e nel Mediterraneo, ma questo non si traduce in una politica estera con mezzi all’altezza delle ambizioni». È frustrante per noi, riconosce la Tocci, che «il ruolo dell’Italia nella guerra ucraina sia quasi invisibile a Washington e sui media Usa». Nessuno qui ha ripreso l’idea che Draghi abbia spinto Emmanuel Macron e Olaf Scholz ad accettare la candidatura di Kiev all’Ue. «Il premier — dice la Tocci — ha un bagaglio positivo enorme e il suo atlantismo è apprezzato. Ma pesa la paura che l’incantesimo Draghi possa spezzarsi».

Federico Mennella, managing director alla banca Rothschild & Co., è convinto che Draghi non basta a far rivalutare il sistema paese. «Trent’anni fa una banca italiana come la Comit pesava a Wall Street quanto la maggiore banca tedesca, oggi la maggioranza delle nostre aziende di credito sono sparite. Si unisce il tramonto di Fiat, Olivetti, Ferruzzi, Montedison. In più gli italiani non sanno promuovere il proprio paese come terra d’investimento. Tant’è, gli imprenditori americani adorano l’Italia per le vacanze, ma al momento di creare nuove attività guardano prima all’Inghilterra, alla Germania e alla Francia».

Un top manager che ha fatto la sua carriera in America è il chief executive della multinazionale cosmetica Estée Lauder, Fabrizio Freda. Anni fa lanciò un tentativo personale: contattò gli ultimi capi delle dinastie del lusso ancora in mani italiane, per convincerli ad allearsi fra loro e creare un gigante come Lvmh o Pinault. Dovette rinunciare. Le rivalità personali erano più forti del desidero di difendere il made in Italy dagli assalti stranieri. Siamo ancora l’Italia di Francesco Guicciardini, siamo quelli del «particulare» e delle faide, Capuleti e Montecchi. Gli americani ce lo perdonano. Perché anche questo fa tanto «colore».

14 luglio 2022 (modifica il 14 luglio 2022 | 00:25)

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, 2022-07-13 23:05:00, Sanno che siamo capaci di pensare fuori dagli schemi. Non piace la bassa quota di donne ai vertici delle aziende, Federico Rampini

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