Nord e Sud, pareggio impossibile

editoriale Mezzogiorno, 15 dicembre 2022 – 08:38 di Aldo Schiavone Per noi che ci siamo dentro non certamente una sorpresa: la realt quotidiana. In ogni momento infatti sotto i nostri occhi l’indiscutibile evidenza che la qualit della vita nelle pi grandi citt della Campania – Napoli innanzitutto, ma poi anche Salerno, Caserta – stia diventando sempre peggiore: come ha appena mostrato l’ultima classifica pubblicata dal Sole 24 Ore e ampiamente riportata dal nostro Corriere. Sono dati che non hanno bisogno di commenti: e d’altra parte, non passa giorno senza che non si aggiunga qualche nuova rilevazione a rendere ancor pi insostenibile il bilancio delle nostre difficolt e del nostro disagio. Da ultime, le cifre sull’evasione scolastica, arrivata a superare in Campania il 14 per cento (solo Sicilia e Puglia in Italia hanno fatto peggio). Una soglia impressionante: l’altra faccia della condizione di deprivazione e d’illegalit (d’illegalit che si nutre di deprivazione), in cui crescono tanti giovani meridionali. Eppure, di fronte a una situazione la cui gravit non pu sfuggire a nessuno il ceto politico meridionale sembra come paralizzato. Chiuso in un’autoreferenzialit che fa pi male della rassegnazione. E invece di trovare le forme e i modi per rappresentare immediatamente al nuovo Governo l’urgenza estrema di ripensare dalle fondamenta l’impianto unitario del Paese, accetta di discutere in ordine sparso, in modo disordinato e confuso, perfino della cosiddetta autonomia differenziata: come sembra per esempio abbiano appena fatto il Presidente De Luca e il ministro Calderoli, dimentichi degli insulti che si erano appena scambiati. Di una riforma cio che, dopo quella del titolo V della Costituzione, nelle condizioni attuali, non potrebbe portare, ove davvero varata e applicata, se non a sancire lo scollamento del Paese, che ne uscirebbe con la spina dorsale irreversibilmente spezzata. questo che vuole davvero la Presidente Meloni? questo che intendeva quando affermava di voler rivoltare l’Italia come un calzino: di dare l’ultima mano alla sua definitiva lacerazione? In effetti, almeno un punto dovrebbe essere chiaro all’intero ceto politico del Mezzogiorno, a cominciare dai sindaci e dai presidenti dei Consigli regionali. Che non possibile nemmeno iniziare un discorso serio sul quadro istituzionale dell’autonomia meridionale – differenziata o no che la si immagini – senza aver compiuto prima una valutazione accurata e senza pregiudizi di cosa stato, in oltre cinquant’anni di vita, il regionalismo italiano; e in particolare quello del Sud del Paese. Se solo si iniziasse una simile ricognizione, apparirebbe chiaro che ad imporsi sarebbe un giudizio in larghissima parte negativo. Bisogna cominciare con il dirlo apertamente: in tutta l’Italia, e non solo nel Mezzogiorno, le Regioni hanno contribuito solo in minima parte (se non proprio in nulla) ad irrobustire il tessuto democratico del Paese, ad avvicinare cittadini e istituzioni, come era nelle speranze di molti negli anni Settanta del secolo scorso, quando si avvi questa esperienza. E particolarmente nel Sud esse hanno piuttosto diffuso e moltiplicato pratiche di inefficienza, di iper-burocratizzazione e di spreco – quando non di autentico malcostume – che hanno pesato non poco sulla fuga dalla politica di masse sempre pi ampie di cittadini meridionali. Proprio sul nostro Corriere del Mezzogiorno qualche giorno fa Matteo Cosenza ha ben documentato come il crearsi di una situazione di stallo e di bassa efficienza nei dispositivi amministrativi e politici regionali, in specie in quelli meridionali, fosse ormai un dato incontrovertibile sin dai primi anni Ottanta. L’esperimento era iniziato da non pi di un decennio, e gi molte cose avevano preso ad andare nel verso sbagliato. E da allora, tutto non ha fatto che continuare a deteriorarsi: spesso, non solo al Sud; e in modo pi accentuato dopo la riforma del 2001. Fino al punto che oggi c’ realisticamente da porsi una domanda capitale. Vale a dire, se e in che misura l’esistenza stessa degli apparati politico-amministrativi regionali, nella maniera in cui hanno finora funzionato, non abbia concorso in quanto tale – e non solo nel Mezzogiorno – ad accrescere piuttosto che a ridurre gli effetti perversi delle grandi strutture di diseguaglianza che stanno mettendo in crisi da molto tempo il carattere unitario della nostra cittadinanza: nella sanit, nella scuola, nella gestione delle infrastrutture e del territorio. Si capisce cos che in un simile contesto la stessa scrittura di una norma come quella dell’art. 143 della legge di bilancio, di cui oggi tanto inutilmente si discute, non ha alcun senso. Essa stabilisce le procedure per fissare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che dovrebbero essere assicurati da ogni servizio affidato alle competenze regionali per garantire l’effettivo esercizio dei diritti sociali da parte di tutti i cittadini, pur in un regime di autonomia differenziata. Ma questo pareggiamento oggi impossibile se prima non si decide di interviene in profondit sugli ingranaggi di ciascuna delle macchine burocratiche regionali, e sui poteri politici locali che le condizionano. In altri termini, se non si pone mano all’insieme del nostro ordinamento regionale: non certo per cancellarlo, ma per ridisegnarne l’intero profilo avendo come principale obiettivo la riduzione delle diseguaglianze da esso stesso provocato. Ma per farlo, bisogna avere in testa un’idea di Paese, e insieme un’idea di eguaglianza come primo contenuto di una cittadinanza democratica davvero inclusiva: visioni che oggi non sembrano molto facilmente rinvenibili nel nostro orizzonte politico, e tantomeno in quello dei gruppi dirigenti meridionali nel loro insieme. Ma anche vero che poi i contesti cambiano, anche d’improvviso, come le persone. E che non disperare il primo esercizio per sopravvivere. 15 dicembre 2022 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-12-15 07:38:00, editoriale Mezzogiorno, 15 dicembre 2022 – 08:38 di Aldo Schiavone Per noi che ci siamo dentro non certamente una sorpresa: la realt quotidiana. In ogni momento infatti sotto i nostri occhi l’indiscutibile evidenza che la qualit della vita nelle pi grandi citt della Campania – Napoli innanzitutto, ma poi anche Salerno, Caserta – stia diventando sempre peggiore: come ha appena mostrato l’ultima classifica pubblicata dal Sole 24 Ore e ampiamente riportata dal nostro Corriere. Sono dati che non hanno bisogno di commenti: e d’altra parte, non passa giorno senza che non si aggiunga qualche nuova rilevazione a rendere ancor pi insostenibile il bilancio delle nostre difficolt e del nostro disagio. Da ultime, le cifre sull’evasione scolastica, arrivata a superare in Campania il 14 per cento (solo Sicilia e Puglia in Italia hanno fatto peggio). Una soglia impressionante: l’altra faccia della condizione di deprivazione e d’illegalit (d’illegalit che si nutre di deprivazione), in cui crescono tanti giovani meridionali. Eppure, di fronte a una situazione la cui gravit non pu sfuggire a nessuno il ceto politico meridionale sembra come paralizzato. Chiuso in un’autoreferenzialit che fa pi male della rassegnazione. E invece di trovare le forme e i modi per rappresentare immediatamente al nuovo Governo l’urgenza estrema di ripensare dalle fondamenta l’impianto unitario del Paese, accetta di discutere in ordine sparso, in modo disordinato e confuso, perfino della cosiddetta autonomia differenziata: come sembra per esempio abbiano appena fatto il Presidente De Luca e il ministro Calderoli, dimentichi degli insulti che si erano appena scambiati. Di una riforma cio che, dopo quella del titolo V della Costituzione, nelle condizioni attuali, non potrebbe portare, ove davvero varata e applicata, se non a sancire lo scollamento del Paese, che ne uscirebbe con la spina dorsale irreversibilmente spezzata. questo che vuole davvero la Presidente Meloni? questo che intendeva quando affermava di voler rivoltare l’Italia come un calzino: di dare l’ultima mano alla sua definitiva lacerazione? In effetti, almeno un punto dovrebbe essere chiaro all’intero ceto politico del Mezzogiorno, a cominciare dai sindaci e dai presidenti dei Consigli regionali. Che non possibile nemmeno iniziare un discorso serio sul quadro istituzionale dell’autonomia meridionale – differenziata o no che la si immagini – senza aver compiuto prima una valutazione accurata e senza pregiudizi di cosa stato, in oltre cinquant’anni di vita, il regionalismo italiano; e in particolare quello del Sud del Paese. Se solo si iniziasse una simile ricognizione, apparirebbe chiaro che ad imporsi sarebbe un giudizio in larghissima parte negativo. Bisogna cominciare con il dirlo apertamente: in tutta l’Italia, e non solo nel Mezzogiorno, le Regioni hanno contribuito solo in minima parte (se non proprio in nulla) ad irrobustire il tessuto democratico del Paese, ad avvicinare cittadini e istituzioni, come era nelle speranze di molti negli anni Settanta del secolo scorso, quando si avvi questa esperienza. E particolarmente nel Sud esse hanno piuttosto diffuso e moltiplicato pratiche di inefficienza, di iper-burocratizzazione e di spreco – quando non di autentico malcostume – che hanno pesato non poco sulla fuga dalla politica di masse sempre pi ampie di cittadini meridionali. Proprio sul nostro Corriere del Mezzogiorno qualche giorno fa Matteo Cosenza ha ben documentato come il crearsi di una situazione di stallo e di bassa efficienza nei dispositivi amministrativi e politici regionali, in specie in quelli meridionali, fosse ormai un dato incontrovertibile sin dai primi anni Ottanta. L’esperimento era iniziato da non pi di un decennio, e gi molte cose avevano preso ad andare nel verso sbagliato. E da allora, tutto non ha fatto che continuare a deteriorarsi: spesso, non solo al Sud; e in modo pi accentuato dopo la riforma del 2001. Fino al punto che oggi c’ realisticamente da porsi una domanda capitale. Vale a dire, se e in che misura l’esistenza stessa degli apparati politico-amministrativi regionali, nella maniera in cui hanno finora funzionato, non abbia concorso in quanto tale – e non solo nel Mezzogiorno – ad accrescere piuttosto che a ridurre gli effetti perversi delle grandi strutture di diseguaglianza che stanno mettendo in crisi da molto tempo il carattere unitario della nostra cittadinanza: nella sanit, nella scuola, nella gestione delle infrastrutture e del territorio. Si capisce cos che in un simile contesto la stessa scrittura di una norma come quella dell’art. 143 della legge di bilancio, di cui oggi tanto inutilmente si discute, non ha alcun senso. Essa stabilisce le procedure per fissare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che dovrebbero essere assicurati da ogni servizio affidato alle competenze regionali per garantire l’effettivo esercizio dei diritti sociali da parte di tutti i cittadini, pur in un regime di autonomia differenziata. Ma questo pareggiamento oggi impossibile se prima non si decide di interviene in profondit sugli ingranaggi di ciascuna delle macchine burocratiche regionali, e sui poteri politici locali che le condizionano. In altri termini, se non si pone mano all’insieme del nostro ordinamento regionale: non certo per cancellarlo, ma per ridisegnarne l’intero profilo avendo come principale obiettivo la riduzione delle diseguaglianze da esso stesso provocato. Ma per farlo, bisogna avere in testa un’idea di Paese, e insieme un’idea di eguaglianza come primo contenuto di una cittadinanza democratica davvero inclusiva: visioni che oggi non sembrano molto facilmente rinvenibili nel nostro orizzonte politico, e tantomeno in quello dei gruppi dirigenti meridionali nel loro insieme. Ma anche vero che poi i contesti cambiano, anche d’improvviso, come le persone. E che non disperare il primo esercizio per sopravvivere. 15 dicembre 2022 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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