Prima di porre l’attenzione sul fatto che sono trascorsi quasi dieci giorni dal termine fissato dalla stessa legge di conversione del D.L. 36 per emanare il Dpcm che dovrebbe rendere attuativa la riforma della formazione e del reclutamento degli insegnanti, partiamo da una considerazione: si tratta di un percorso farraginoso che non ha riscontri in Europa, almeno per quanto riguarda l’iter tortuoso e complicato.
Un docente con esperienze anche all’estero ha recentemente inviato una lettera alla Tecnica dove tra altre interessanti constatazioni affermava che negli altri Paesi europei si può parlare di “un cammino di formazione e reclutamento non più semplice, ma semplicemente normale!”.
Un percorso farraginoso che non ha eguali in Europa. Da più parti si chiede il ripristino di un corretto dibattito sul futuro dell’istruzione pubblica, che coinvolga chi lavorando nella scuola ne conosce problemi e necessità.
In effetti il reclutamento prospettato dal D.L. 36/2022 costringe a un autentico percorso a ostacoli e per insegnare nelle scuole di istruzione secondaria di I e di II grado ci vorranno 60 Cfu (almeno dalla fine del 2024) in discipline psico-pedagogiche.
Praticamente, evidenziavo in un altro recente articolo, quasi una sorta di nuovo “master”, diciamo un anno in più fra università (con conseguimento dei Cfu) o corsi accademici (Cfa) e tirocini (con prove finali, compresa una lezione simulata); dopo il percorso “abilitante” – infatti il conseguimento dell’abilitazione non costituisce titolo di idoneità né dà alcun diritto relativamente al reclutamento in ruolo al di fuori delle procedure concorsuali per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato – possibilità di accedere ai concorsi; ma non è finita qui: c’è un periodo di prova annuale (almeno 180 giorni di servizio e 120 di attività didattiche) per i neoassunti, con test finale (che sostanzialmente non esiste oggi se consideriamo il cosiddetto “anno di prova”, con un tutor di riferimento) e valutazione del dirigente scolastico, sentito il comitato per la valutazione; in caso di mancato superamento del test finale o di valutazione negativa c’è un secondo periodo di prova, non rinnovabile.
No a eventuali “business di una formazione burocratizzata o a forme di privatizzazione”. Un “laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva, allestito come un villaggio vacanze, con animatori addestrati”?
Un’autentica riforma di sistema, che non si dovrebbe fare in fretta, con un passaggio determinante attraverso un Dpcm e che in realtà necessita dell’approvazione di ben 14 decreti attuativi. Peraltro, a parte il discorso sul reclutamento, la riforma conta sull’istituzione di una Scuola di Alta formazione e formazione continua per dirigenti scolastici, insegnanti e personale Ata, nella quale saranno coinvolti Indire, Invalsi e università, ma saranno stipulabili convenzioni anche con soggetti pubblici e privati, fornitori di servizi certificati di formazione). Un decreto legge (poi convertito nella legge n. 79 del 29 giugno scorso) in effetti assai poco condiviso nel mondo della scuola.
Infatti, le scelte ministeriali e del governo anche stavolta, come accade ormai da tantissimo tempo, sono “divisive” e calate dall’alto senza adeguata consultazione con chi nel mondo della scuola, in aula, opera quotidianamente. Con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, il Manifesto Nuova Scuola dichiara di non voler più accettare le forzature di un governo che “approfitta del Pnrr per introdurre nelle scuole innovazioni dannose e controproducenti, verso cui spingono fortissimi interessi privati”, con un ministro che tra l’altro utilizza “espressioni come ‘riaddestrare gli insegnanti’ all’uso di nuove tecnologie, misconoscendo le capacità e il lavoro di insegnanti che operano tutti i giorni meritoriamente in classe”. Si chiede perciò al Capo dello Stato, garante della Costituzione, “il ripristino di un corretto dibattito democratico sul futuro dell’Istruzione pubblica, che coinvolga chi nella scuola lavora e ne conosce problemi e necessità, e non diventi pretesto per arricchire il business di una ‘formazione’ burocratizzata e di bassissimo livello culturale o per introdurre forme di privatizzazione che portano la scuola lontana dai suoi compiti costituzionali”.
E ci piace segnalare anche il giudizio della giurista, esperta di temi educativi, Elisabetta Frezza, su quello verso cui sembra – in certi “ambienti decisionali” – si voglia, da anni, indirizzare la scuola: “un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva. Una sorta di allevamento di ominidi in batteria, allestito come un villaggio vacanze, con animatori addestrati”.
Un provvedimento non sottoposto al confronto e contestato e che apre la strada ad un autentica “riforma di sistema”: è opportuno che venga avviato da un governo dimissionario? Le priorità per la scuola sono altre
Poi ci sarebbe da valutare un discorso di opportunità politica: da un punto di vista formale il Dpcm fissato entro il 31 luglio per rendere operativo il nuovo percorso di reclutamento previsto dal D.L. 36/2022 (convertito nella legge n. 79) rientra nel perimetro degli “affari correnti” di cui il governo (e nella fattispecie il ministro Bianchi) si può occupare, ma ci si dovrebbe interrogare – come già sottolineato nell’altro recente articolo citato – se è “corretto” affrontare riforme di sistema con un governo che con le dimissioni non ha più la stessa legittimazione politica e appare totalmente “spaccato”.
In quella occasione abbiamo scritto, ricordando tra l’altro che a breve (25 settembre) ci saranno le elezioni e quindi un nuovo esecutivo (sarà bene conoscere dettagliatamente i programmi, anche sulla scuola, dichiarati dai vari raggruppamenti politici in campagna elettorale e sottoposti agli elettori, ai cittadini italiani): “c’è chi afferma che sono a rischio i fondi europei per il Pnrr, ma a parte che i finanziamenti sono legati ad altrettante scadenze di dicembre 2022 (quindi ci sarebbe possibilità anche per il futuro governo, anche se effettivamente i “tempi tecnici” sarebbero davvero stretti, tenuto anche conto che si dovrà affrontare pure una legge di bilancio) su ilsole24ore.com leggiamo che ‘Bruxelles ha già fatto sapere che proprio sulle riforme fondamentali della concorrenza e della giustizia sarà intransigente’. Pare proprio che la riforma del reclutamento non sia una riforma… fondamentale”.
Insomma, le priorità sono altre: assegnazione delle cattedre già all’inizio del nuovo anno scolastico; ancor più prioritario provvedere a un rientro in classe in sicurezza: e invece nulla è stato fatto per i sistemi di aerazione meccanica nelle aule né sono stati in tal senso stanziati fondi, mancando anche le “linee guida” del Ministero dell’istruzione (ci chiedevamo non senza una sfumatura di amara ironia: “si punta ancora… sulle finestre aperte?”). Per non parlare del rinnovo contrattuale. Né si intende risolvere in modo adeguato il problema delle cosiddette “classi pollaio”.
Il comma 4 dell’art. 44 del testo del D.L. n. 36, coordinato con la legge di conversione n. 79, precisa che il Dpcm va adottato entro il 31 luglio 2022. Gli stessi estensori della legge possono non rispettare il termine contenuto nella norma da loro prodotta?!
Ma dal discorso imperniato sulla “qualità” e opportunità del provvedimento, passiamo adesso alla “forma” che quando si parla di leggi ha un’importanza talvolta maggiore della stessa “sostanza”. Ebbene, al comma 4 dell’art. 44 (Formazione iniziale e continua dei docenti delle scuole secondarie) del testo del decreto legge 30 aprile 2022, n. 36, coordinato con la legge di conversione 29 giugno 2022, n. 79, leggiamo: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i Ministri dell’istruzione e dell’università e della ricerca, da adottare entro il 31 luglio 2022, negli ambiti precisati all’articolo 2, comma 2, sono definiti i contenuti e la strutturazione dell’offerta formativa corrispondente a 60 CFU/CFA (…)”.
Il termine fissato al 31 luglio 2022 ha valore prescrittivo, altrimenti gli estensori della norma avrebbero dovuto utilizzare una formula diversa sulla possibile tempistica di attuazione del Dpcm. Ora, se magari fossimo al 1° agosto… potremmo pensare che come diverse scadenze che fissano un termine di carattere amministrativo in un giorno festivo (e il 31 luglio era domenica) possono slittare al giorno successivo. Ma siamo al 9 agosto e tra l’altro quando il premier ha di fatto dimissionato il governo c’erano ancora tanti giorni per potere mettere a punto questo Dpcm, considerandone l’emanazione un “affare corrente” (a prescindere dal discorso sulla opportunità politica, vista la nuova situazione). Così invece non è stato: forse non è considerato proprio un “affare… corrente” bensì un “affare… da piacevole passeggiata” o forse il troppo caldo ha indotto a rinviare la data del Dpcm stesso? Solo che adesso i termini sono abbondantemente scaduti e sembrerebbe davvero strano che gli stessi estensori della legge poi non rispettino quanto contenuto nella norma da loro firmata (e votata in Parlamento)! E sembrerebbe anche un tantino irrispettoso verso i cittadini, i quali se non rispettano le scadenze fissate vanno incontro a sanzioni amministrative.
Peraltro il tempo per emanare, come “affare corrente”, il Dpcm entro la data contenuta nella norma ci sarebbe stato, invece si è preferito introdurre con il decreto “Aiuti bis” la figura del ‘docente esperto’, con effetti economici fra dieci anni
Però hanno avuto il tempo di varare il decreto “Aiuti bis”, che contiene anche norme per la scuola, introducendo la figura del “docente esperto” e aprendo la strada al middle management, solo che in ogni caso… la norma avrebbe effetti pratici addirittura tra un decennio, nel 2032! Ci esimiamo, visto che questo articolo si occupa di altro, da qualsiasi commento, ma proponiamo una lucida e anche ironica riflessione di un docente che sull’argomento ha scritto a La Tecnica della Scuola.
Del resto lo stesso deputato di Italia viva Gabriele Toccafondi, componente della VII commissione Cultura alla Camera, appena una dozzina di giorni fa aveva dichiarato: “il Governo resta in carica per gli affari correnti, occorre un Dpcm entro la fine di luglio sui percorsi di formazione iniziale, con delle indicazioni precise alle università. Senza queste indicazioni è difficile per gli atenei mettere a regime questi percorsi per formare insegnanti preparati. Quindi il percorso è già avviato e ora va portato a termine”.
In realtà, noi abbiamo un’idea leggermente differente: le università dovrebbero in primo luogo formare docenti preparati per insegnare negli stessi Atenei, ancor prima di occuparsi di scuola, e risolvere i propri problemi, a volte molto seri, come gli abbandoni universitari o come ci riferiscono le cronache anche recenti vicende legate ad accuse di concorsi truccati. E poi da anni, affidare agli Atenei l’organizzazione di corsi legati al mondo della scuola può forse essere, secondo il parere di alcuni, una forma di “risarcimento” per il mancato adeguato finanziamento (cosa che peraltro avviene anche per la scuola pubblica) da parte di governi e ministeri, i quali per l’istruzione e la ricerca pubblica in generale stanziano cifre insufficienti, che per esempio nel mondo universitario contribuiscono a far emigrare tanti bravi laureati e ricercatori italiani.
Magari aveva ragione lei, onorevole Toccafondi – il quale peraltro più che per queste dichiarazioni e per un certo “attivismo” in questo scampolo d’estate, nonché per una carriera politica in cui ha vestito molte “casacche”, verrà ricordato in quanto sottosegretario all’Istruzione durante il governo Renzi e la relativa riforma della cosiddetta “buona scuola” – ma il percorso, per quanto riguarda il Dpcm, andava portato a termine appunto entro il 31 luglio.
E non è una questione di “lana caprina”, i primi a dovere dare l’esempio del rispetto di quanto previsto da una norma (sin quando non ne subentra un’altra), che non può essere derogata a piacimento, sono proprio i rappresentanti istituzionali, e francamente non è la prima volta (limitandoci a questa legislatura) che viene aggirato, scavalcato il perimetro normativo.
Va anche rilevato che i decreti del presidente del Consiglio dei ministri (dei quali si è fatto nel recente passato un uso massiccio) è una fonte normativa secondaria in forma di atto amministrativo, è un atto, come ricorda anche Altalex.com, che non viene sottoposto ad alcun intervento di verifica, come invece previsto dal principio dell’equilibrio dei poteri, come ad esempio avviene per il decreto legge che, necessitando della firma del Capo dello Stato, avrebbe almeno un minimo controllo preventivo e, soprattutto, entro 60 giorni, dovendo essere convertito dalle Camere, pena la sua inefficacia, verrebbe sottoposto al giudizio dell’organo legislativo.
Insomma, quello di emanare un Dpcm ben oltre i termini stabiliti sarebbe un bel problema in più – che potrebbe portare anche a contenziosi amministrativi, anche se inerenti a specifiche controversie – che si sovrappone ai tanti nodi che caratterizzano un lungo percorso a ostacoli, che come già detto rappresenterebbe un’autentica e severa “riforma di sistema”, attuata da un governo dimissionario, con passaggi assai poco condivisi nel mondo della scuola.
, 2022-08-09 15:15:00, Prima di porre l’attenzione sul fatto che sono trascorsi quasi dieci giorni dal termine fissato dalla stessa legge di conversione del D.L. 36 per emanare il Dpcm che dovrebbe rendere attuativa la riforma della formazione e del reclutamento degli insegnanti, partiamo da una considerazione: si tratta di un percorso farraginoso che non ha riscontri in […]
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