di Fulvio Bufi
Il garante dei detenuti del Comune di Napoli arrestato con l’accusa di aver ricevuto denaro per fare arrivare in carcere cellulari e droga
Quando uscì dal carcere di Velletri, dopo aver scontato l’ultima condanna a sedici anni, P ietro Ioia aveva nella borsa, tra lettere, foto e ritagli di giornale, un bigliettino con un numero di telefono scritto a penna. Glielo aveva lasciato prima di andarsene un compagno di cella calabrese, uno che al suo paese era soprannominato Escobar. Gli aveva detto di chiamarlo, perché di certo avrebbero trovato qualcosa da fare insieme. Pietro quel numero non lo compose mai. Strappò il biglietto e lo buttò. E con quello pensò di aver buttato via tutta la malavita vissuta fino a quel giorno. Voleva tenersi i ricordi dell’infanzia a vico Lammatari, nel cuore del Rione Sanità, con il papà di quelle parti e la mamma di Forcella, dove lei vendeva le sigarette di contrabbando e lui giocava a fare piramidi con i pacchetti di Marlboro, finché non arrivava Salvatore, il fratello più grande — uno dei sette che aveva — e gliele buttava giù solo per fargli dispetto.
Voleva tenersi l’amore di sua moglie, Pina, che chiamavano la giornalista, perché aveva l’edicola dei giornali davanti al vecchio tribunale di Castel Capuano, e dimenticarsi di Marina, la colombiana conosciuta in Spagna che gli presentò il patrigno narcotrafficante e quello fece di lui un broker della droga, uno che andava a Bogotà e faceva arrivare a Napoli chili di cocaina da distribuire alle famiglie che gestivano lo spaccio. V oleva cominciare a raccogliere ricordi dei suoi figli, perché su di loro da detenuto aveva messo insieme solo i racconti della moglie, e dimenticare di quando, appena diciannovenne, fu il primo a vendere il fumo a Forcella, togliendo l’esclusiva alla «sposa», la piazza di spaccio dei Quartieri spagnoli dove era un andirivieni continuo di ragazzi da tutta Napoli.
Solo una cosa non voleva eliminare dai ricordi: la miseria del carcere. E la violenza nella «cella zero» di Poggioreale, quel luogo del quale la magistratura non ha mai accertato l’esistenza ma che nei racconti e nelle denunce di Ioia era un buco nero «dove le guardie ti pestavano e ti umiliavano e qualche detenuto ci ha pure lasciato la vita». Pietro voleva essere un ex narcotrafficante che mai più avrebbe venduto droga, ma anche un ex recluso che mai avrebbe cancellato dalla memoria le sofferenze della reclusione, né si sarebbe dimenticato di chi quelle sofferenze continuava a patirle. E di sicuro è stato sia una cosa che l’altra. Perché l’associazione che costituì nel 2004, Exdon (Ex detenuti organizzati napoletani), ha fatto moltissimo per aiutare chi usciva dal carcere a reinserirsi nella vita sociale e lavorativa. E perché non possono essere stati tutti pazzi o ciechi o sordi quelli che hanno creduto in lui.
Non Luigi de Magistris che da sindaco, nel 2019, lo nominò Garante dei detenuti del Comune di Napoli; non Ilaria Cucchi che nello stesso anno lo inserì tra i premiati della Onlus intitolata a suo fratello Stefano, riconoscendogli l’impegno in favore dei diritti umani; e nemmeno Marotta e Cafiero, la casa editrice che ha aperto una libreria a Scampia, e nel 2017 ha pubblicato il libro La cella zero, morte e rinascita di un uomo in gabbia.Alla fine l’unico che non ha creduto in Pietro Ioia è stato Pietro Ioia. Vissuto troppo a lungo nel male per credere alle favole a lieto fine, o almeno per credere che la favola a lieto fine potesse avere lui per protagonista. E forse in una intervista a Gaia Martignetti di FanPage lo aveva anche detto, a modo suo: «Se Pietro Ioia sbaglia di nuovo, allora dovete infierire su Pietro Ioia». Ecco, ha sbagliato di nuovo.
18 ottobre 2022 (modifica il 18 ottobre 2022 | 22:26)
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, 2022-10-18 20:38:00, Il garante dei detenuti del Comune di Napoli arrestato con l’accusa di aver ricevuto denaro per fare arrivare in carcere cellulari e droga , Fulvio Bufi