di Alessandra Coppola
La scrittrice colombiana racconta la solitudine di una donna in una natura forte e incomprensibile. «Pensavo che femminista fosse una brutta parola» dice «poi, diventata madre, ho sperimentato l’enorme disparità con mio marito»
Siamo piccoli, noi esseri umani. «Come un granello di sabbia nel mare, un colibrì nel vento, un bradipo abbracciato al suo ramo». Esposti agli elementi, annegati dall’acqua o ingoiati dalla selva; spaventati e rabbiosi al pari degli altri animali. «Quando viviamo in città, circondati dal cemento, non ce ne rendiamo conto. L’esperienza intensa della costa pacifica e poi la mia maternità mi hanno rimesso al mio posto. Ed è quello che ho voluto restituire ne La cagna ».
Nella sua mattina lassù a Bogotà, le montagne che incombono dalla finestra ampia, Pilar Quintana ha appena fatto la doccia e s’affaccia dallo schermo coi capelli bagnati. Viene in mente una sua intervista in cui smonta il luogo comune dello scrittore glamour, raccontando di giornate intere trascorse in pigiama davanti al computer. «Se non altro, oggi mi sono lavata», ride. Poca forma, molta sostanza in questo debutto italiano dell’autrice colombiana che inaugura per La nave di Teseo il nuovo corso della collana La Tartaruga, “femminista” al modo intelligente della curatrice Claudia Durastanti. Un libro straziante eppure impossibile da lasciare fino all’ultima pagina (magnificamente tradotto dal solito Pino Cacucci): donne come cagne, cuccioli come bambini, noi tutti in balia di una natura più forte e incomprensibile che mai.
Come c’è finita in questo remoto villaggio di pescatori sull’Oceano, in cui ha vissuto per nove anni e ha ambientato il romanzo?
«A 28 anni sono partita per un lungo viaggio assieme al mio fidanzato di allora, in realtà scappando dalla vita di impiegata che sembrava toccarmi. Cercavo il mio posto nel mondo. Già sapevo di voler essere scrittrice. Ho attraversato il Sudamerica, sono stata in India, Nepal, in Australia….».
Nella sua biografia è scritto che ha fatto i lavori più disparati per mantenersi: leggenda o verità?
«Tutto vero, ho fatto la dogsitter a Sydney, ho aiutato il mio compagno a fare il muratore: so mescolare il cemento!».
Finché non è tornata in Colombia…
«Volevamo vivere in Amazzonia, nella natura, l’avevamo già sperimentato; quando un amico di famiglia ci propose di comprare un terreno molto economico sulla costa del Pacifico, geograficamente molto vicino alla mia città, Cali, eppure un altro mondo. Tre ore di macchina per attraversare la cordigliera, tra curve e precipizi, e arrivare a Buenaventura, di lì un’ora in barca fino a questo remoto villaggio di pescatori. Ci sembrò il paradiso…».
Lo era?
«Pensavamo di vivere come hippy a piedi scalzi: la seconda settimana eravamo già coperti di punture di insetti, le termiti stavano distruggendo le travi della casa, a mio marito venne un’infezione atroce da curare con antibiotici e scoprimmo che per vivere nella selva bisognava usare veleno, farmaci, machete…».
«QUANDO ARRIVAI IN QUEL VILLAGGIO SPERDUTOMI SEMBRÒ IL PARADISO. A NOI PIACEMOLTO IL NOSTRO LATO LUMINOSO,MA NELLA SELVA DOBBIAMO INCONTRARE ANCHE IL BUIO»
L’acqua nel suo romanzo non pulisce ma corrode; la selva è un intrico di trappole e mistero: è questa la natura? Lotta e sopravvivenza?
«Spesso ne abbiamo un’idea molto occidentale, immaginiamo un’armonia. La natura ci dà e toglie, è vita e morte… Appena trasferita sul Pacifico, cominciai a leggere e rileggere i classici colombiani, da La voragine di José Eustasio Rivera a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, e ovunque la selva era “oscura”. Mi dicevo: io non la descriverò così… E invece ne ho scritto esattamente allo stesso modo: come di un luogo che fa paura. Credo che la selva ci metta a confronto con la nostra ombra. A noi piace molto il nostro lato luminoso, nella selva dobbiamo incontrare anche il buio: per sopravvivere devi essere una conquistatrice che avanza con il machete».
In questo contesto di natura ostile, si colloca la protagonista, Damaris, che desidera figli, non può averne e ne è tormentata.
«Quando sono arrivata al villaggio, avevo 31 anni e la gente non poteva credere che io e il mio compagno non volessimo figli. Mi davano ogni tipo di consiglio per restare incinta. La pressione era molto forte, allora ho cominciato a pensare a come deve sentirsi una donna che ne vorrebbe ma non può, sottoposta di continuo a questa insistenza. Deve essere molto duro».
Il romanzo però poi l’ha concluso quando è tornata a vivere in città, e ha avuto un bimbo: in che modo questa esperienza le ha ispirato una storia di maternità crudele?
«Ci hanno venduto l’idea della madre come una donna tenera e dolce. Una vergine Maria che si sacrifica per i figli. E invece è anche sangue, lacrime, oscurità, rabbia. Un figlio ti toglie il meglio di te stessa e ti provoca una rabbia inconcepibile, mai provata prima. Assieme alla vita nella selva, la maternità è stata l’esperienza in cui più mi sono sentita un animale. Eppure questo aspetto è totalmente negato. C’è bisogno di raccontarlo apertamente, di denunciarlo».
Che cosa significa essere femminista oggi?
«Nelle mie idee lo sono sempre stata, ma solo di recente lo dichiaro. Prima del #metoo, delle campagne per il diritto all’aborto e della rinascita del movimento, “femminista” era una parola sporca, che rimandava a un’immagine di donna amareggiata, che odia gli uomini, magari brutta… Diventata madre, ho sperimentato l’enorme disparità con mio marito, che ha potuto lavorare senza problemi; ho cominciato a leggere saggi di giovani donne; e ho iniziato a rivendicare il mio femminismo».
Si considera una scrittrice militante?
«Il mio attivismo lo esercito con il progetto della Biblioteca delle scrittrici: la riedizione di 18 libri che riscattano altrettante autrici colombiane escluse dal canone e dimenticate. La letteratura delle donne è stata considerata di serie B per stile e argomenti, quella vera era degli uomini… Io, però, non mi considero una scrittrice femminista. Quello che mi interessa è narrare la società con il mio sguardo, uomini o donne che siano».
Com’è la società colombiana oggi? Che influenza ha avuto una sanguinosa guerra civile durata trent’anni e appena conclusa?
«La firma degli accordi di pace (nel 2016, ndr ) ha rappresentato un grande passo avanti, la maggior parte dei guerriglieri delle Farc ha deposto le armi ed è tornata alla vita civile. Eppure la guerra in Colombia continua, condotta dagli irriducibili delle Farc, ma soprattutto dalle bande criminali residuo del paramilitarismo. Stanno uccidendo militanti ambientalisti che difendono la terra, leader sindacali, ex combattenti che hanno scelto la pace… Di facciata la destra sostiene gli accordi, ma nella realtà vuole perpetuare il conflitto per mantenere i propri privilegi…».
Alle ultime presidenziali ha però vinto la sinistra di Gustavo Petro. Lo ha votato?
«Non so quanto riuscirà a metterlo in pratica, ma il suo programma mi sembra stupendo. Soprattutto è meraviglioso che una donna come Francia Márquez diventi vicepresidente. Nera, madre, attivista per l’ambiente: è lei il segnale più importante di cambiamento e speranza».
11 luglio 2022 (modifica il 13 luglio 2022 | 23:45)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-07-13 21:45:00, La scrittrice colombiana racconta la solitudine di una donna in una natura forte e incomprensibile. «Pensavo che femminista fosse una brutta parola» dice «poi, diventata madre, ho sperimentato l’enorme disparità con mio marito», Alessandra Coppola