La politica riprenda il suo ruolo

l’editoriale Mezzogiorno, 17 settembre 2022 – 08:00 Lo stato comatoso del dibattito pubblico, il meschino conformismo delle élite cittadine e la scomparsa di un’opinione pubblica sgretolata dal tritacarne dei social, impediscono di guardare oltre il proprio naso anche a chi, di solito, esercita lo spirito critico per mestiere o per passione civile di Enzo d’Errico Non è tempo di cerchi nell’acqua. È già tanto se, quando lanci una pietra, lo stagno s’increspa. Ma un giornale libero, senza pregiudizi di sorta, ha il dovere di continuare a provarci. Non soltanto perché altrimenti verrebbe meno alla sua funzione ma perché sollevare una discussione, anche aspra, sui temi del rapporto tra cittadini e istituzioni è l’unico modo che abbiamo per contribuire a migliorare la qualità della vita della nostra comunità. È quanto abbiamo cercato di fare innescando un confronto sul ruolo dell’Università (sempre più invasivo, secondo alcuni) nell’amministrazione comunale guidata da Gaetano Manfredi. Abbiamo ospitato gli interventi di Goffredo Fofi, Massimiliano Virgilio, Marco D’Isanto e Valeria Pinto accanto alle opinioni contrarie di Vincenzo Trione e Giorgio Ventre: insomma, non è stato un dibattito fra illustri sconosciuti bensì tra voci significative del nostro panorama culturale, ciascuna con una storia e un prestigio decisamente importanti. Purtroppo, però, l’esito non è stato confortante: ancora una volta, infatti, abbiamo assistito al classico dialogo tra sordi, caratterizzato da quell’autismo ideologico, a tratti perfino corporativo, che impedisce di ascoltare le dissonanze, di cogliere, e caso mai accogliere, una critica (peraltro molto diffusa in città) senza sbarrarle il passo preventivamente. O a prescindere, come diceva Totò. Qualcuno si è addirittura fatto scudo dei toni usati da Fofi nella rubrica domenicale «Mezzogiorno di fuoco», dimenticando forse le tinte ben più accese che mezzo secolo fa adoperava Pier Paolo Pasolini quando scagliava i suoi sassi nello stagno politico del tempo: costoro pensano davvero che una polemica culturale (autentica e non farlocca) debba avere il ritmo cortese di un minuetto? Non credo, perché si tratta di intellettuali d’alto rango che del coraggio hanno fatto la cifra del loro impegno civile e professionale. Allora perché insorgere senza affrontare il merito delle questioni evidenziate? La sostanza dei fatti è inoppugnabile: i gangli vitali dell’amministrazione comunale sono stati assegnati a docenti universitari. Il sindaco è l’ex rettore della Federico II, la vice sindaca insegna nello stesso Ateneo, l’assessore più importante della giunta è un nome prestigioso di quell’Accademia e anche per sostituire la straordinaria Mia Filippone all’Istruzione si è fatto ricorso a una professoressa che insegna pedagogia in via Mezzocannone. Recentemente ben 13 professori universitari sono stati chiamati a comporre la commissione comunale per il risparmio energetico, senza contare che tre su quattro consulenti del sindaco per la Cultura sono anch’essi docenti accademici. Vi sembra così strano che qualcuno possa fare domande in merito? Oppure bisogna chinare il capo dinanzi al sottinteso, che affiora tra le righe, «invece di ringraziarci, ci criticate pure»? Sia chiaro, nessuno mette in dubbio che l’Università sia un bacino essenziale dal quale attingere saperi e competenze: soltanto un imbecille potrebbe pensare il contrario. E chiunque abbia sale in zucca ritiene un’ottima notizia il suo coinvolgimento nell’azione amministrativa, tanto più se — come ha sottolineato Vincenzo Trione — qualcuno si spende per la città natia pur abitando altrove ormai da anni. Allo stesso modo, bisogna spazzar via con decisione i retroscena e le illazioni: Gaetano Manfredi è un galantuomo che, tra mille difficoltà, sta facendo l’impossibile per riscattare il futuro di Napoli, consegnato in ostaggio da un ventennio di pressapochismo e inefficienza. Nessuno può dubitare che le sue scelte, giuste o sbagliate che siano, poggino esclusivamente sull’interesse generale e non sulle convenienze di questa o quella corporazione. Tuttavia lo stato comatoso del dibattito pubblico, il meschino conformismo delle élite cittadine e la scomparsa di un’opinione pubblica sgretolata dal tritacarne dei social, impediscono di guardare oltre il proprio naso anche a chi, di solito, esercita lo spirito critico per mestiere o per passione civile. Gli argomenti posti dai nostri editorialisti avevano al fondo un solo interrogativo: che fine ha fatto la politica? E quando parliamo di politica non intendiamo certo i partiti, trasformati troppo spesso in agenzie di collocamento. Quello di cui si voleva discutere è l’isolamento di una classe dirigente che, dopo un anno di governo, fatica ancora a costruire un legame «sentimentale» con i napoletani, l’evanescenza di una visione condivisa del nostro futuro, l’assenza di partecipazione reale alla formazione delle scelte. Trione e Ventre hanno reagito invocando lo scarso dinamismo produttivo e il sostanziale immobilismo della città. Sono d’accordo. Ma la soluzione è consegnare le chiavi ai tecnici oppure provare a includere pezzi di società condannati all’oblio da vent’anni di scialo istituzionale eppure, nonostante questo, ancora vivi e pulsanti? Capisco che la seconda soluzione sia molto più faticosa ma qualcuno ha tentato di cucire un dialogo con saperi e competenze che non coincidono necessariamente con il mondo degli Atenei? Non so come si possa immaginare di amministrare a lungo una metropoli sempre più squassata dalla crisi economica e sociale, di incidere davvero sul destino delle persone, senza creare un interscambio con le risorse migliori che albergano nelle associazioni, negli uffici professionali, nelle case e non soltanto nelle aule universitarie. Il compito più alto di una classe dirigente degna di questo nome è allevare coloro che saranno chiamati a sostituirla, non perpetuare sé stessa e tantomeno chiudersi a riccio nel recinto di una «sapienza» arcaica. E poi, diciamola tutta, a un anno dal suo insediamento il «governo dei pochi» non ha prodotto grandi cose. Pur applicando la tara delle innegabili difficoltà, di un lavoro svolto sotto traccia per rimettere in sesto la macchina burocratica, la sensazione diffusa è che poco o nulla sia cambiato. Ma, soprattutto, che non sia sbocciata un’identificazione «civica» tra i napoletani e i loro amministratori, che manchi quel «sentiment» capace di far sentire le persone parte di un progetto condiviso. Questo vento tanto impalpabile quanto necessario può essere sollevato soltanto dalla politica. Ecco perché, tirando le fila di questo dibattito, mi permetto di avanzare un sommesso consiglio: Manfredi ha tutte le qualità per modificare il tessuto connettivo della sua esperienza di governo, soltanto lui può tessere una tela che avvolga Napoli intera e non soltanto una sua parte, a patto che prenda coscienza fino in fondo di un ruolo che è in primo luogo politico, poi anche tecnico. C’è ancora tempo per invertire la rotta: rischi di più, si curi meno dei pedaggi elettorali da pagare e abbandoni la «comfort zone» delle relazioni accademiche. Perché nessuna «polis», per quanto scassata, avrà lo stesso perimetro di un’Accademia. 17 settembre 2022 | 08:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-18 05:57:00, Lo stato comatoso del dibattito pubblico, il meschino conformismo delle élite cittadine e la scomparsa di un’opinione pubblica sgretolata dal tritacarne dei social, impediscono di guardare oltre il proprio naso anche a chi, di solito, esercita lo spirito critico per mestiere o per passione civile,

Pietro Guerra

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