La premier avara con il Sud

editoriale Mezzogiorno, 26 ottobre 2022 – 08:11 di Paolo Macry Oggi (forse) è nato il partito conservatore, e Giorgia Meloni ne è diventata la leader. Non l’antica militante del Fronte della Gioventù, l’ultima reincarnazione dello spettro fascista, ma la leader che, forte di un ampio mandato popolare, tenta l’operazione più temeraria, la trasformazione della vecchia «destra sociale» in un partito conservatore europeo. Pragmatismo politico, regole di mercato, famiglia, nazione, occidentalismo. È in queste vesti che Giorgia Meloni si è presentata ieri alla Camera, consapevole – così è sembrato – delle grandi difficoltà di un percorso ambizioso che terremoterebbe gli equilibri della sua coalizione e sfiderebbe molti dei tabù del paese, dal corporativismo dei corpi dello Stato al sistema scolastico. E naturalmente, vista all’ombra del Vesuvio, la domanda è: fino a che punto un partito conservatore potrebbe essere adottato dal Mezzogiorno? Al Sud, nel discorso della Camera, Meloni ha dedicato in verità poche parole. Forse perché consapevole che quel progetto è destinato a trovare qui un ambiente poco favorevole e sembra fatalmente destinato a camminare sulle gambe delle regioni centro-settentrionali. Certo è che al Nord, pur con ogni prudenza, la premier ha promesso l’autonomia differenziata, la soluzione del contenzioso fiscale, la revisione del codice degli appalti, il controllo della spesa pubblica, la normalizzazione dei flussi migratori. E, tra Stato e mercato, seguendo anche in ciò la tradizione del conservatorismo europeo, ha in sostanza scelto il mercato. Molto più avara è stata con il Sud. Ha riconosciuto l’urgenza dei programmi infrastrutturali ma poi ha mostrato qualche reticenza di troppo su quelle «politiche del mare» che dovrebbero valorizzarne la collocazione mediterranea, ha lasciato in sospeso i rapporti tra Ministero per il Sud e Ministero per il Pnrr, ha ignorato le forti perplessità che circondano nel Mezzogiorno il nodo dell’autonomia differenziata. E non si è peritata di prendere di petto la questione del reddito di cittadinanza, ne ha parlato con chiarezza (o con durezza, a seconda dei punti di vista). Assistenza a chi non può lavorare, lavoro a chi può lavorare, ha detto in uno dei passaggi più bruschi del discorso, senza risparmiare gli strali nei confronti di coloro che «lucrano» politicamente sul reddito. Quella di Meloni, insomma, è stata l’illustrazione di un percorso di medio periodo, che se convincerà parzialmente – ma in sostanza convincerà – gli alleati leghisti e forzisti, di certo provocherà reazioni fortemente negative nei territori del Sud. È fin troppo facile prevedere il fuoco di sbarramento delle classi dirigenti meridionali sul Pnrr (modificarlo? e in quale direzione?), sulle politiche di coesione, sull’assistenza sociale, sulla meritocrazia scolastica. E naturalmente – e anzitutto – sull’autonomia differenziata. Ma è probabile che Meloni abbia messo nel conto tutto questo. Del resto è nelle regioni centro-settentrionali che la destra ha raccolto il successo del 24 settembre, mentre il Mezzogiorno portava in trionfo i pentastellati di Giuseppe Conte. È probabile cioè che Meloni, andando alla ricerca delle basi sociali ed economiche del suo progetto conservatore, abbia voluto consapevolmente entrare in rotta di collisione con le narrazioni pauperistiche e assistenziali del Sud, sfidandolo non tanto sul terreno del welfare, quanto su quello dello sviluppo. Quasi che la sua implicita polemica (o i suoi silenzi eloquenti) non riguardassero lo stato di povertà diffusa del Mezzogiorno, ma piuttosto una società complessivamente fragile, la debolezza della sua classe media, la dipendenza dalla mano pubblica della sua imprenditoria, la porosità delle regole del gioco, cioè della legalità. È sembrato cioè che la stessa Meloni non credesse più di tanto che in questo Sud possa far presa la prospettiva di un partito conservatore. E che desse perciò per scontato ciò che con ogni probabilità avverrà: il radicarsi nei territori meridionali dell’opposizione al suo governo. Se così fosse, si tratterebbe di una novità politica. Dopotutto, il Mezzogiorno ha costituito per decenni il serbatoio del «ministerialismo», cioè del consenso offerto a chi governava il paese, un consenso non di rado clientelare. E poi, chiusi quei generosi rubinetti, è diventato la culla di leader politici e formazioni politiche che ne esprimevano il rivendicazionismo più aspro e che lo seducevano con le arti della demagogia. Da Emiliano a de Magistris, da De Luca a Conte. Ma attenzione. Oggi, un Mezzogiorno sulle barricate rischierebbe di avere vita molto difficile. Diventerebbe l’alternativa populista e localista a questa destra che, sia pure a fatica, sembra voler giocare la carta del conservatorismo europeo. Un’alternativa che rischierebbe di ricordare altre e remote stagioni, dall’Uomo Qualunque di Guiglielmo Giannini all’epopea napoletana di Achille Lauro. Quelle, lo sappiamo, non furono stagioni fortunate, furono asfittiche, finirono per dimostrarsi anacronistiche. Chi intendesse rispondere alla strategia meloniana, avendo a cuore il bene del Sud e non solo per racimolare qualche consenso in più, dovrebbe prendere tutt’altre strade. 26 ottobre 2022 | 08:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-26 06:12:00, editoriale Mezzogiorno, 26 ottobre 2022 – 08:11 di Paolo Macry Oggi (forse) è nato il partito conservatore, e Giorgia Meloni ne è diventata la leader. Non l’antica militante del Fronte della Gioventù, l’ultima reincarnazione dello spettro fascista, ma la leader che, forte di un ampio mandato popolare, tenta l’operazione più temeraria, la trasformazione della vecchia «destra sociale» in un partito conservatore europeo. Pragmatismo politico, regole di mercato, famiglia, nazione, occidentalismo. È in queste vesti che Giorgia Meloni si è presentata ieri alla Camera, consapevole – così è sembrato – delle grandi difficoltà di un percorso ambizioso che terremoterebbe gli equilibri della sua coalizione e sfiderebbe molti dei tabù del paese, dal corporativismo dei corpi dello Stato al sistema scolastico. E naturalmente, vista all’ombra del Vesuvio, la domanda è: fino a che punto un partito conservatore potrebbe essere adottato dal Mezzogiorno? Al Sud, nel discorso della Camera, Meloni ha dedicato in verità poche parole. Forse perché consapevole che quel progetto è destinato a trovare qui un ambiente poco favorevole e sembra fatalmente destinato a camminare sulle gambe delle regioni centro-settentrionali. Certo è che al Nord, pur con ogni prudenza, la premier ha promesso l’autonomia differenziata, la soluzione del contenzioso fiscale, la revisione del codice degli appalti, il controllo della spesa pubblica, la normalizzazione dei flussi migratori. E, tra Stato e mercato, seguendo anche in ciò la tradizione del conservatorismo europeo, ha in sostanza scelto il mercato. Molto più avara è stata con il Sud. Ha riconosciuto l’urgenza dei programmi infrastrutturali ma poi ha mostrato qualche reticenza di troppo su quelle «politiche del mare» che dovrebbero valorizzarne la collocazione mediterranea, ha lasciato in sospeso i rapporti tra Ministero per il Sud e Ministero per il Pnrr, ha ignorato le forti perplessità che circondano nel Mezzogiorno il nodo dell’autonomia differenziata. E non si è peritata di prendere di petto la questione del reddito di cittadinanza, ne ha parlato con chiarezza (o con durezza, a seconda dei punti di vista). Assistenza a chi non può lavorare, lavoro a chi può lavorare, ha detto in uno dei passaggi più bruschi del discorso, senza risparmiare gli strali nei confronti di coloro che «lucrano» politicamente sul reddito. Quella di Meloni, insomma, è stata l’illustrazione di un percorso di medio periodo, che se convincerà parzialmente – ma in sostanza convincerà – gli alleati leghisti e forzisti, di certo provocherà reazioni fortemente negative nei territori del Sud. È fin troppo facile prevedere il fuoco di sbarramento delle classi dirigenti meridionali sul Pnrr (modificarlo? e in quale direzione?), sulle politiche di coesione, sull’assistenza sociale, sulla meritocrazia scolastica. E naturalmente – e anzitutto – sull’autonomia differenziata. Ma è probabile che Meloni abbia messo nel conto tutto questo. Del resto è nelle regioni centro-settentrionali che la destra ha raccolto il successo del 24 settembre, mentre il Mezzogiorno portava in trionfo i pentastellati di Giuseppe Conte. È probabile cioè che Meloni, andando alla ricerca delle basi sociali ed economiche del suo progetto conservatore, abbia voluto consapevolmente entrare in rotta di collisione con le narrazioni pauperistiche e assistenziali del Sud, sfidandolo non tanto sul terreno del welfare, quanto su quello dello sviluppo. Quasi che la sua implicita polemica (o i suoi silenzi eloquenti) non riguardassero lo stato di povertà diffusa del Mezzogiorno, ma piuttosto una società complessivamente fragile, la debolezza della sua classe media, la dipendenza dalla mano pubblica della sua imprenditoria, la porosità delle regole del gioco, cioè della legalità. È sembrato cioè che la stessa Meloni non credesse più di tanto che in questo Sud possa far presa la prospettiva di un partito conservatore. E che desse perciò per scontato ciò che con ogni probabilità avverrà: il radicarsi nei territori meridionali dell’opposizione al suo governo. Se così fosse, si tratterebbe di una novità politica. Dopotutto, il Mezzogiorno ha costituito per decenni il serbatoio del «ministerialismo», cioè del consenso offerto a chi governava il paese, un consenso non di rado clientelare. E poi, chiusi quei generosi rubinetti, è diventato la culla di leader politici e formazioni politiche che ne esprimevano il rivendicazionismo più aspro e che lo seducevano con le arti della demagogia. Da Emiliano a de Magistris, da De Luca a Conte. Ma attenzione. Oggi, un Mezzogiorno sulle barricate rischierebbe di avere vita molto difficile. Diventerebbe l’alternativa populista e localista a questa destra che, sia pure a fatica, sembra voler giocare la carta del conservatorismo europeo. Un’alternativa che rischierebbe di ricordare altre e remote stagioni, dall’Uomo Qualunque di Guiglielmo Giannini all’epopea napoletana di Achille Lauro. Quelle, lo sappiamo, non furono stagioni fortunate, furono asfittiche, finirono per dimostrarsi anacronistiche. Chi intendesse rispondere alla strategia meloniana, avendo a cuore il bene del Sud e non solo per racimolare qualche consenso in più, dovrebbe prendere tutt’altre strade. 26 ottobre 2022 | 08:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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