PTOF, PEI e PDP solo atti burocratici, siano il vero motore. Il 30% dei docenti legato alla scuola per farla funzionare anche di pomeriggio. Vi dico tutta la verità, di Paolo Fasce

È sempre molto animato il dibattito sui temi legati alla poliedricità di problematiche e risorse legate alla scuola italiana. Colmare le differenze tra Nord e Sud, le figure di Staff, gli insegnanti di sostegno e la verità come motore della scuola italiana: solo alcune delle riflessioni che abbiamo fatto con il dirigente scolastico Paolo Fasce autore del volume “Scuola: giuro di dire tutta la verità” edito per i tipi della casa editrice Erickson. Lo abbiamo intervistato per l’autorevolezza della sua figura e la capacità “onesta” di parlare del mondo della scuola con “verità”.

A suo avviso, cosa servirebbe alla scuola italiana per diventare, nuovamente, altamente competitiva?

«Un cambio di paradigma, cioè un cambio di mentalità. Fino a quando penseremo al PTOF, ai PEI e ai PDP, alla programmazione annuale come “burocrazia” e non come il motore della nostra attività quotidiana, saremo sempre degli “ingenui volenterosi”, come mi è capitato di sentire profferire da Norberto Bottani in un seminario. Nel momento in cui ciascuno di noi penserà per prima cosa al successo formativo degli studenti e delle studentesse, come per un medico il primo pensiero è la guarigione del paziente, tutto cambierà e verrà il credito sociale. L’ho provato personalmente.».

E per azzerare le differenze tra le scuole del nord, nuove e ricolme di strutture laboratoriali, e quelle del sud, molte risalenti al periodo del Regno d’Italia?

«Mi risulta che negli ultimi lustri gli investimenti statali siano stati fortemente compensativi, ma non ho statistiche da invocare e sarebbe utile disporne per parlarne con sensatezza. Detto questo, è inutile pensare alle rivoluzioni, si tratta di attivare un piano trentennale e accettare che l’evoluzione sia entro questo orizzonte temporale. L’opinione pubblica dovrebbe semplicemente accertarsi che il piano sia rispettato e le scuole non sacrificate sull’altare di altre opere non sempre prioritarie.».

Tra chat, messaggi, comunicati e mail inviate ai diretti interessati e poi veicolate anche sui social la confusione regna sovrana. Partono i “si dice, mi hanno detto, circola questa voce, ecc…” e sale la tensione, l’ansia, l’agitazione fino al punto da diventare virali. Cosa ci vorrebbe o di cosa avrebbe bisogno la scuola italiana per avviarsi senza intoppi ad inizio anno e non avere problemi in corso d’opera…?

«Prima di vincere il concorso, ho fatto un anno di esperienza da vicepreside. Una collega, buonanima, allora mi disse, riempendomi d’orgoglio: “Paolo, da quando ci sei tu, si sanno le cose”. Ora che sono al vertice, nella mia scuola “si sanno le cose strutturalmente”. La chiarezza è il punto di partenza per una relazione adulta. Evidentemente, questo vale dentro la mia scuola, ma non posso certo controllare quello che avviene fuori.».

I corsi TFA, in pratica, ormai da anni, svuotano di docenti le scuole italiane. Insegnanti, a tempo indeterminato, con contratti al 30 giugno o al 31 agosto, spesso dal mese di gennaio, sono costretti a chiedere l’aspettativa per completare le 150 ore di tirocinio. Docenti che spesso non hanno avuto accesso alle 150 ore di permessi per diritto allo studio. Se il problema è comune ed è davvero inaccettabile che alunni, spesso con disabilità, vengano privati dei loro docenti, perché non si è mai trovata una soluzione diversa che permetta i tirocini e contemporaneamente che l’insegnante-studente continui ad insegnare?

«Da un lato assistiamo ad una distorsione nell’uso delle centocinquanta ore, dall’altro ad un’organizzazione discutibile. Personalmente, quando ho chiesto le 150 ore, e l’ho fatto diverse volte, ho usufruito in genere di 10/20 ore in tutto. Quelle strettamente necessarie. Il fatto che siano “calendarizzate male” è da correggere. Occorre un patto formativo e anche questo diritto va aggiornato per contemperare tutti quelli in campo (che non sono solo quelli del lavoratore/trice). Cosa diversa è la specializzazione sul sostegno da una seconda laurea che un docente prende per piacere personale, comprensibile e legittimo, ma personale».

In tre punti, come cambierebbe la scuola?

«Il primo punto è legato alla formazione “obbligatoria, strutturale e permanente” che oggi è regolata dal voto del Collegio dei Docenti. Occorre una commissione che discuta con ogni singolo docente e che lavori sui punti deboli di ciascuno, come vedo si cerca di fare coi neoassunti di quest’anno, approfittando dell’enorme offerta formativa, quasi sempre gratuita, che gravita attorno alla scuola tramite le reti di Ambito territoriale, i Future Labs, i progetti PNSD e PNRR, per non parlare di seminari e iniziative di portatori di interesse presenti sul territorio, dal Comune fino all’Università e quella a distanza di ispirazione ministeriale o scientifica (penso alla piattaforma Elisa sul Cyberbullismo e ad Essediquadro, piattaforma dell’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR sul fronte dell’inclusione scolastica). Formazione cucita su ciascuno che, quindi, diventa trasformativa. Il secondo punto è l’istituzione delle carriere. Ogni scuola deve avere un 30% di docenti, legati a quella scuola, incentivati. Per farla funzionare di pomeriggio e d’estate (salvaguardando le ferie, beninteso). Infine, naturalmente, occorre una riforma degli organi collegiali che non possono essere l’ostacolo all’innovazione, ma ne devono essere motore autentico.».

Tre proposte per le “figure di staff” e per renderle davvero all’altezza del compito che hanno e del tempo che impiegano…

«Nel 30% dei docenti incentivati che devono essere assegnati a ciascuna scuola al fine di farla funzionare, ci sono anche loro. Dobbiamo sottrarre queste figure alla contrattazione non perché, in astratto, sia sbagliata, ma perché nel concreto delle cose, genera attriti spesso dolorosi che dovremmo evitare al tessuto relazionale che abita le nostre scuole».

Tre proposte per cambiare l’approccio ai nuovi media, ai social e alla tecnologia, in un mondo che guarda con diffidenza a queste realtà… e poi quanto sono utile per la scuola, se lo sono davvero?

«Ne faccio solo una. Rileggere e riflettere attentamente il decalogo delle “politiche di uso accettabile delle tecnologie digitali a scuola”. Aggiungo anche i sette principi dell’apprendimento OCSE contenuti nel documento “Scuola 4.0” posti alla base della progettualità del PNRR. Me ne ha chiesti tre, gliene ho evocati diciassette. Domandiamoci perché questi diciassette punti destano perplessità nella categoria e superiamo queste perplessità, perché per il cittadino comune sono tutte cose ovvie.».

Come educare le nuove generazioni alla verità?

«Praticandola.».

Come imparare dalla verità?

«Qui entra in gioco la scuola. Il metodo scientifico, l’onestà intellettuale, la cultura. Tutte cose che sono figlie di insegnamenti formali, informali e non formali. Ma non di qualsiasi insegnamento formale, informale e non formale. Sono figli di un certo approccio che, comportandoci come professionisti consapevoli, dobbiamo incarnare entro il quadro indicato dal CCNL che ci descrive come i migliori insegnanti (finlandesi?) possibili: “Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica. I contenuti della prestazione professionale del personale docente si definiscono nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione e nel rispetto degli indirizzi delineati nel piano dell’offerta formativa della scuola”».

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