La partita con chi ha costruito il Mondiale. «In vacanza ogni due anni»

di Arianna Ravelli, inviata a Doha

Viaggio dentro Labour city, detta anche Asian City: la città nella città, lontana dalla Doha scintillante, che ospita i lavoratori stranieri. Gli alloggi, i salari, le condizioni. Ma dei morti non si parla

DOHA Kuame è già seduto sugli spalti due ore prima della partita, ma non sa quale delle due partite sarà proiettata sul maxischermo. Viene dal Ghana e qui fa l’autista. Ha una speranza legittima: «Penso daranno Ghana-Uruguay, è più importante, no? Il Portogallo è già qualificato». E se no? «Guardo il Ghana sul telefonino». Ok.

Arrivano a gruppetti, è venerdì, allegri come chi ha il giorno libero e, finalmente, qualcosa da fare. Si accomodano nella spianata davanti al primo maxischermo oppure entrano nello stadio del cricket, sport che molti di loro avrebbero preferito, dove c’è il secondo (e dove, purtroppo per Kuame, non daranno il Ghana). Cristiano Ronaldo nella città dei lavoratori: Labour City, o, non a caso, Asian City, 70mila persone che vivono in queste file di case bianche, nella Zona industriale (dove abitano 600mila persone), 25 km dalla Doha più scintillante, il deserto che incombe, cantieri, spianate di camion.

Questa Fan zone è stata realizzata per i lavoratori e non si può dire non abbia successo: nello stadio alla fine saranno almeno 4mila, forse di più, dal Nepal, dall’India, dal Bangladesh, dal Ghana, dalle Filippine, dal Togo. Elettricisti, meccanici, autisti di camion, muratori. Esultano sia quando segna il Portogallo, sia quando segna la Corea, basta che succeda qualcosa. Sono tutti uomini. Le uniche donne sono la presentatrice che dà il via all’intrattenimento pre-partita e due ballerine sul palco. Dopo ore, quando la partita è sull’1-1, arriva una donna in burqa assieme al marito che ha un bambino in braccio e l’aria preoccupata.

Prima dei Mondiali non c’era niente di tutto ciò: non c’era neanche questa parte di città per la verità, costruita per provare a dare una mano di pittura sulle condizioni di semi-schiavitù che ancora sono in vigore, e un minimo di dignità ai lavoratori stranieri che, il Mondiale, così come tutto il Qatar, l’hanno costruito . Lasciandoci anche la pelle: due giorni fa per la prima volta il regime ha ufficialmente riconosciuto che ci sono stati 500 morti nei cantieri. Le indagini indipendenti parlano di 6.500, ma qui l’argomento è tabù. «No, di morti non so niente — si chiude subito Sukram, dal Nepal, elettricista — però non sono tanto contento, lavoro 10 ore al giorno, prendo 1000 rial (260 euro). Starò qui un anno, poi vedrò».

Prima dei Mondiali l’unica attrazione era il Grand Mall Hypermarket, a due passi da qui, il centro commerciale circolare (come uno stadio), che il venerdì è un caos di taxisti che provano ad attirare clienti. Qua a inizio del mese si ritirano le paghe (quando arrivano), da questo parcheggio partono molti furgoni per portare i lavoratori nei cantieri. «Ma prima ancora non c’era neanche il Grand Mall», spiega Rabeeh che lavora al negozio di telefonia ed è arrivato dall’India da abbastanza tempo (dieci anni) per ricordarselo. Rabeeh, che tifa Brasile, fa parte del partito di quelli che – sul lungo periodo – vedono miglioramenti. «Spero solo che dopo i Mondiali non si fermi tutto e che ospiteranno qualche altro evento». Ma lui è un privilegiato. I più disperati non sono qui, non a vedere la partita, relegati in baracche con bisogni più impellenti, dove raccontano ci siano pulci, topi, condizioni igieniche devastanti e per la disperazione c’è chi si riduce a bere l’alcol denaturato per pulire i pavimenti, vista la difficoltà di procurarsi alcolici. Qua no, questa che viene alle partite è una sorta di «classe media», naturalmente per gli standard del Qatar «che restano molto diversi da quelli occidentali», come riconosce un avvocato che si occupa di seguire i lavoratori e che ci passa al telefono un ragazzo pakistano che non parla inglese ma vuole comunque aiutarci.

La kafala, la legge per cui il datore di lavoro ha poteri quasi assoluti (sui permessi di soggiorno, sulla possibilità di cambiare lavoro e persino di tornare in patria), in teoria è stata abolita. In pratica non proprio. Andrew è arrivato dalle Filippine nel 2012, manovra le gru: «Cambiare compagnia? No, non si può. Però ogni due anni ho una vacanza e posso tornare a casa», e non lo dice lamentandosi.

«Mi dispiace qua non si può entrare», è lo stop dell’uomo della security (gentile) quando ci si avvicina alla cittadina con gli alloggi. Non fa niente, Anthony è sveglio, vive qui, entra lui, scatta e torna con le foto: «Ecco la mensa, i bagni – mostra —, qua le camere dove dormiamo in quattro, non è molto bello», si vedono le brandine nascoste da tende, una pulizia accettabile, non ricordasse tutto una prigione.

Gli hotel di West Bay sono lontani, però non siamo neanche in fondo alla catena dei disperati. Anthony ha 21 anni, dice di essere un cantante in Ghana, è arrivato da sei mesi, l’amico che è con lui era già stato qui due anni fa, poi era tornato a casa, non si era trovato bene. Adesso sono venuti apposta per lavorare ai Mondiali, Anthony nella security degli stadi, l’amico fa il marshall in un’altra Fanzone.

«Gli stipendi sono troppo bassi: 1800 rial (470 euro), non vale la pena». Nicolas, ghanese anche lui, lavora alla lavanderia dell’aeroporto: «Torno al mio Paese. Qui dormo e lavoro. Rivoglio la mia libertà». Tra un po’ se ne andrà anche Cristiano Ronaldo e, il venerdì sera, resterà di nuovo solo il Grand Mall.

3 dicembre 2022 (modifica il 3 dicembre 2022 | 09:06)

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, 2022-12-03 08:06:00, Viaggio dentro Labour city, detta anche Asian City: la città nella città, lontana dalla Doha scintillante, che ospita i lavoratori stranieri. Gli alloggi, i salari, le condizioni. Ma dei morti non si parla, Arianna Ravelli, inviata a Doha

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