«Quella sera che Casini mi fece sentire il suo discorso per l’elezione al Quirinale»

di Matteo RenziPubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Matteo Renzi («Il mostro»), in uscita martedì Pubblichiamo un estratto del libro di Matteo Renzi «Il mostro», in uscita martedì per Piemme. N ei primi giorni delle votazioni quirinalizie mi ero tenuto prudente. Come sempre in questi casi avevo più candidati. Dicevo a tutti che per la solidità delle istituzioni la cosa più logica mi sembrava spostare Mario Draghi al Quirinale e rinforzare il profilo politico del governo. Non era un passaggio facile. In molti lo temevano. Io pensavo che Draghi per sette anni avrebbe fatto meglio al Paese di un solo anno a Palazzo Chigi. Certo: la sua corsa aveva alcuni handicap. E ovviamente tra questi figurava la resistenza molto forte di Cinque Stelle, Forza Italia e Lega. Penso, però, che tale ostilità si sarebbe potuta tramutare in appoggio — perlomeno a destra — se solo Draghi avesse scelto di giocarsi le carte in modo diverso. Più che Draghi, direi i suoi più stretti collaboratori. Draghi infatti è sempre stato straordinariamente signorile. Ha sempre dato la sua disponibilità davvero come «un nonno al servizio delle istituzioni». Avrebbe sicuramente fatto bene al Quirinale e sicuramente farà bene a Palazzo Chigi in questo anno. Non ha brigato. E io posso dire di esserne testimone avendo fatto qualche incontro e telefonata con lui fin dagli anni in cui era alla Bce. Temo, però, che i suoi collaboratori più stretti — soprattutto Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello — abbiano costruito una strategia sbagliata. L’errore dei Draghi’s Boys è stato quello di pensare di arrivare al Quirinale contro la politica, come reazione alla difficoltà della politica. Pensavano di essere chiamati al Quirinale come una sorta di naturale soluzione se si fosse continuata a indebolire la componente politica. Io avevo spiegato invece che la strada maestra era l’altra: provare a offrire ai partiti un patto di legislatura, comprensivo dell’accordo di un nuovo governo, magari più marcatamente politico. E su questo anche Salvini aveva — bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare — aperto ufficialmente a inizio gennaio. Non tanto Draghi, ma i suoi hanno insistito per caratterizzare il premier come la soluzione da presentare contro l’inconcludenza dei partiti. È la dimostrazione che si può essere bravi professori all’università, ma che il Parlamento è un’altra cosa. In Italia se vai contro ai partiti puoi arrivare ovunque tranne che al Colle: per come è fatto questo sistema istituzionale, con l’assemblea dei grandi elettori, non si diventa presidente della Repubblica contro i partiti. Mi è parso che Draghi lo avesse molto chiaro nei nostri incontri di gennaio tra Città della Pieve e Roma, ma che i suoi due principali collaboratori non lo abbiano capito per niente. Segno evidente che a Palazzo Chigi, oggi, il più politico di tutti è proprio il premier. Peccato perché questa incapacità di leggere la politica dei tecnici draghiani ha impedito una soluzione che poteva essere difficile da costruire, ma molto utile per il Paese. Chi per qualche ora ha assaporato l’elezione è stato Pier Ferdinando Casini, il decano dei parlamentari, un moderato apprezzato in tutti gli schieramenti. Ma alla fine — questa è la verità — non è stato voluto da Salvini e dalla Lega, nonostante il placet che da Forza Italia al Pd era arrivato in modo più o meno esplicito. Sono testimone del fatto che Casini ha vissuto come sull’ottovolante quelle ore, ma sempre con una tenuta di nervi e un rispetto istituzionale che lo qualificano per quello che è, un galantuomo, e che fanno immaginare che avrebbe servito benissimo il Paese alla presidenza della Repubblica come lo aveva già fatto alla presidenza della Camera. Quando ho capito che era tutto finito, ho chiamato Casini e gli ho offerto una pizza e una buona bottiglia di champagne a casa mia a Roma, con un nostro comune amico. Doveva essere la cena della condivisione della sconfitta perché io so per esperienza diretta che quando si vince sono tutti lì e quando si perde si è da soli. Così il giovedì sera chiamo Pier e condivido una buona bevuta scherzando e prendendoci un po’ in giro. Mi fa sentire il finale del primo discorso che avrebbe pronunciato a sedute riunite: bellissimo, con una citazione toccante di papa Giovanni Paolo II. «Bel lavoro, tienilo per il 2029» gli dico scherzando. Lui mi manda a stendere: «Me lo hai già detto sette anni fa». E ovviamente ci ridiamo sopra come fanno due professionisti che sanno che in politica le cose non vanno quasi mai come vorremmo. Verso le 23, ennesimo colpo di scena: telefonata dal quartier generale Lega-Forza Italia, Casini torna in pista. Berlusconi e Salvini sembrano pronti a sostenerlo. La cena della sconfitta finisce lì. Gli dico: «Amico mio, se perdi io ci sono. Ma ora che rischi di vincere, io non servo più». E ci salutiamo allegri. La mattina dopo ennesima doccia fredda: Salvini torna a flirtare con Conte, stavolta sulla Belloni, Casini ripone la citazione di Giovanni Paolo II nel cassetto, l’Italia continua ad aspettare… 14 maggio 2022 (modifica il 14 maggio 2022 | 20:38) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-14 18:38:00, Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Matteo Renzi («Il mostro»), in uscita martedì, Matteo Renzi

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