Ragazzi con sindrome di Down: per loro, finita la scuola, spesso non resta che stare a casa

Quando viene meno la scuola, per i ragazzi con sindrome di Down c’è il nulla: non resta che stare a casa. A trarre questa conclusione è arrivata l’indagine “Non uno di meno. La presa in carico delle persone con sindrome di Down per il perseguimento del miglior stato di salute e la loro piena integrazione sociale” realizzata dal Censis in collaborazione con Aipd (Associazione Italiana Persone Down) su un campione di 1.200 caregiver intervistati in tutta Italia.

Restare quindi a casa una volta terminati gli studi è il destino di quasi il 50% delle persone adulte con sindrome di Down, specialmente al Sud e nelle isole. Poco più del 13% ha un lavoro da dipendente o collaboratore, ma solo il 35,0% percepisce uno stipendio normale (e non minimo).

È un primo segno di come manchino servizi, supporti e in generale risposte soprattutto per gli adulti con sindrome di Down. E questo indica una strada alle istituzioni e a noi associazioni – commenta Anna Contardi, coordinatrice nazionale di Aipd – non è un caso che l’impatto della sindrome di Down sul lavoro dei caregiver è significativo: risulta infatti che il 25,9% delle caregiver donne ha ridotto il lavoro (passando per esempio al part-time), mentre il 20,4% ha lasciato il lavoro o lo ha perso”.

La maggioranza delle persone con sindrome di Down abita nella propria casa (solo l’1,2% vive in una struttura residenziale). Col passare degli anni, aumenta il tempo trascorso in casa o nel centro diurno: fino a 14 anni, oltre il 90% frequenta la scuola, mentre tra 25 e 44 anni il 39,3% lavora, il 24,3% frequenta un centro diurno e il 27,6% sta a casa. La situazione si aggrava dopo i 44 anni, quando appena il 9,0% lavora, il 41,3% frequenta un centro diurno, ma ben il 44,8% non fa nulla e sta a casa. La tendenza a stare a casa è prevalente al Sud, dove riguarda ben il 33,0% del campione, a fronte dell’8,8% nelle regioni del Nord-Est. Per quanto riguarda la scuola, le difficoltà dell’inclusione vengono indicate soprattutto nella scarsa preparazione degli insegnanti curricolari (è questa la risposta prevalente, soprattutto quando si parla della fascia 15-24 anni), ma anche degli insegnanti di sostegno. È nelle scuole superiori, evidentemente, che la scuola inizia a mostrare maggiori carenze nell’offerta formativa e inclusiva per gli studenti con disabilità.

L’accesso ai servizi e la presa in carico. Poco meno della metà dei caregiver segnala la presenza nella propria Asl di appartenenza di un servizio pubblico o convenzionato dedicato alle persone con disabilità intellettiva e, tra questi, tutti lo utilizzano. È alta la percentuale di chi non è informato (28,8%) e il 23,7% dichiara che questa tipologia di servizio non è presente. Questo dato varia anche sulla base del livello di istruzione dei rispondenti: solo il 34,6% di chi ha il titolo di studio più basso (tendenzialmente si tratta anche dei caregiver più anziani) afferma che il servizio è presente, contro il 55,5% dei laureati.

Anche la quota di chi afferma di non essere informato è più elevata tra chi ha un livello di istruzione basso (il 37,0% contro il 21,0%). La mancanza d’informazione condiziona evidentemente lo stesso utilizzo dei servizi. Solo il 26,0% del campione afferma che sul proprio territorio è stato realizzato un piano di presa in carico, il 24,0% dice che è stato predisposto ma è solo formale o ha una applicazione parziale, mentre per la metà dei casi il piano non è stato predisposto. Ancora una volta emergono differenze significative a livello territoriale: al Sud, il 73,2% dei caregiver afferma che il piano per la presa in carico della persona con sindrome di Down di cui si occupa non è mai stato realizzato.

Le difficoltà principali incontrate dalla famiglia riguardano l’integrazione nella scuola e nella società (51%) e la fatica di orientarsi tra i servizi sociali e sanitari (48%). Molto significativi i dati sulle proposte d’intervento: la scelta ricade per lo più su progetti di educazione all’autonomia e alla vita indipendente (47,9%), sull’offerta di servizi per il tempo libero (42,3%) e su politiche d’inclusione lavorativa (35,5%) e presa in carico complessiva della persona (33,8%). Riguardo a ciò che dovrebbe fare la società per le persone con sindrome di Down, il 53,3% chiede di promuoverne l’autonomia e l’inserimento sociale e lavorativo, il 4,6% domanda di potenziare i servizi medici e riabilitativi. Per quanto riguarda il costo sociale della sindrome di Down, il costo medio annuo per paziente (Cmap) stimato risulta pari a 27.677 euro. Nello specifico, i costi diretti (legati alle spese direttamente monetizzabili sostenute per l’acquisto di beni e servizi) rappresentano il 15% dei costi complessivi, mentre i costi indiretti, a carico della collettività, rappresentano l’85% del totale: si tratta di costi legati agli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che sono stati monetizzati e risultano pari a 23.513 euro all’anno.

 Si esprime per lo più in attività strutturate, mentre risulta molto difficoltosa nelle attività informali. Oltre il 50% non riceve mai amici e non va a casa di amici, oltre il 60% non esce mai con amici. Ma quasi il 90% partecipa ad attività sportive o simili. Il 24,0% ha una vita relazionale affettiva e il 2,5% ha una relazione sessuale, percentuale che sale a 4,3% tra i 25 e i 44 anni: segno che i tempi stanno cambiando e che ci stiamo lasciando alle spalle quella visione angelicata e asessuata delle persone con sindrome di Down che ha caratterizzato il passato. Riguardo al lavoro, il 13,3% ha un contratto da dipendente o collaboratore. Di questi, il 35% percepisce un compenso minimo, il 35% un compenso normale.

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, , Pubblicato da Redazione Tuttoscuola
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