Ragazzi senza competenze di base, incapaci di concentrarsi, con scarsa padronanza del linguaggio e 2mln di posti di lavoro che non riusciamo a coprire. INTERVISTA a Marco Malagoli

“Da una parte i disoccupati, dall’altra le imprese a cui mancano – secondo la CGIA di Mestre – due milioni di addetti che non trova, di cui 800 mila tra i 15 e i 34 anni. In mezzo la scuola, e in particolare gli istituti professionali, che sembrano sempre più distanti dal mondo delle imprese. Così finisce che tanti giovani diplomati che cercano un lavoro spesso non riescano a trovare un’occupazione, nonostante l’enorme richiesta, perché non hanno le competenze e le abilità richieste”.

Spesso mancano anche le competenze minime: “Molti non sanno distinguere tra una chiave a brugola e una chiave inglese, non sanno accendere la luce o non sanno perché si accende e spesso non sanno neppure capire quello che diciamo”, ci spiega in questa intervista Marco Malagoli, presidente di CNA industria e del Consorzio Cedem di Modena, 180 dipendenti, specializzato nella manutenzione e costruzione di attrezzature per la vendita di idrocarburi e gas. Anche Malagoli mette la scuola sul banco degli imputati: “Non tanto gli insegnanti – precisa – quanto il sistema scolastico e formativo in generale”. Secondo il dirigente emiliano gli istituti professionali sfornano personale non preparato al mondo del lavoro.

Malagoli non biasima gli studenti bravi che in quanto bravi e dotati di buone conoscenze – si pensi a quelli che escono dagli istituti tecnici – paradossalmente non sono collocabili tra le maestranze dove ci sarebbe più bisogno”. Secondo Malagoli non si richiede una grande conoscenza a questi ragazzi, solo che “a volte mancano le basi e anche la voglia di spendersi visto che dopo meno di due mesi dall’assunzione spesso questi ragazzi abbandonano l’azienda che li aveva assunti. Sembra che nessuno voglia più fare un lavoro manuale”.

Chi si occupa di questi problemi ogni giorno si pone delle domande. Quale tipo di personale manca? Occorre Investire sull’orientamento? E’ qui la falla? Se sì, cosa fare? Non è che basterebbe pagare di più i lavoratori? Molti scelgono il liceo disdegnando tecnici e professionali: c’è anche questo problema? Se le pongono le aziende, queste domande, se le pongono le associazioni professionali, se le pone anche la scuola. Di certo c’è che dalla scuola vengono fuori figure professionali che stando alle valutazioni del mondo imprenditoriale non sono preparate al mondo del lavoro. Cosa fare? In Emilia Romagna – la locomotiva italiana forte di uno storico tessuto produttivo imperniato sulle piccole e medie imprese e sui distretti inventati negli anni ’60 che hanno fatto diventare grande la regione nel settore ceramico, in quello tessile, nel biomedicale, nell’agroalimentare, nel settore meccanico – il 53 per cento delle imprese non trova i lavoratori che servono. Scarseggiano i profili tecnici, non si trovano gli operai. Confindustria Emilia Romagna denuncia l’enorme difficoltà nel reperire addirittura il 78 per cento dei profili tecnici ad alta specializzazione. Un grido d’allarme, scrive Giovanni Medici sulla Gazzetta di Modena di ieri, ampiamente condiviso dal direttore scolastico regionale Stefano Versari: “Gli istituti tecnici industriali e professionali in Emilia Romagna raccolgono la maggioranza degli iscritti rispetto ai licei e la nostra è una delle pochissime regioni dove questo avviene – spiega Versari – E nonostante questo, i diplomati ogni anno sono in numero insufficiente per coprire i pensionamenti”. Secondo il direttore scolastico, “se non passa una diversa visione culturale per la quale l’istruzione tecnica non è un minus ma un plus rispetto agli altri percorsi formativi, noi non ne verremo fuori”

Resta il tema di fondo: gli istituti professionali sono in grado di preparare i ragazzi e le ragazze a tal punto da renderli facilmente occupabili in un mercato del lavoro caratterizzato da un’altissima domanda di lavoratori oppure hanno ragione gli imprenditori a lamentare carenze nella formazione professionale, spesso quella strettamente manuale, degli studenti? Bastano le lodevoli iniziative sia quelle scolastiche sia quelle di Confindustria, volte a intensificare lo studio delle materie Stem in molte scuole e anche nelle secondarie di primo grado?

La scuola è un pilastro della società ma non può vivere all’esterno di essa e il mondo dell’impresa è parte integrante di tale società – ha spiegato a Fabrizio De Angelis, in un’intervista per il nostro giornale, Carlo Mazzone, finalista del Global Teacher PrizeQuando, nel 2004, ho iniziato questa straordinaria esperienza nel mondo della docenza, venendo dal contesto aziendale, ricordo che parlare di impresa a scuola era per molti aspetti riferirsi a qualcosa di alieno. Per molti anni, impresa e scuola sono stati visti, erroneamente, mondi separati e inconciliabili. Il mio modello didattico Vivariumware nasceva allora proprio dal tentativo di unire questi due mondi. Credo che i tempi siano maturi per un’ottica completamente nuova che possa arricchire da una parte la scuola e dall’altra la società in generale”.

Non è che però così si conferisce alla scuola un’impostazione eccessivamente mirata ad un preciso obiettivo anziché fornire quel bagaglio di conoscenze e stimolare una maggiore coscienza critica negli studenti? gli ha chiesto De Angelis. La risposta: “Credo ci sia un errore di fondo in un’ottica che vuole per forza di cose vedere nell’avvicinamento dell’impresa alla scuola un modo per creare dei “pezzi di azienda”. Noi, a scuola, formiamo innanzitutto dei cittadini che possano trovare il loro posto nel mondo e realizzarsi come esseri umani. Ciò non è possibile senza una formazione di base e in particolare umanistica che risulta, sempre e comunque, imprescindibile. Per dirne una, io sono più che favorevole alla possibilità di insegnare filosofia anche negli istituti tecnici. Quello che si cerca di fare avvicinando i giovani studenti al mondo dell’impresa è di aiutarli a trovare le loro passioni sin dai primi anni e a realizzare un orientamento a ciò che riempirà loro la vita. Uno dei problemi di fondo è proprio la difficoltà di far capire alle giovani generazioni quali sono le strade che potranno dare loro maggiori soddisfazioni di vita. Ciò è particolarmente vero nei tempi che stiamo vivendo che scorrono a velocità impressionanti in termini di nuove competenze richieste e di una straordinaria complessità e molteplicità di attività lavorative possibili. Infatti, molto spesso anche la formazione tecnica è di tipo generale e insegna degli approcci piuttosto che dei meri dettagli”.

Intanto a Modena, da lunedì 23 a mercoledì 25 ottobre 2023, si svolge la maratona creativa di “Energie libere”. Sono 51 e hanno un’età media di 18 anni i giovani che partecipano all’hackaton, una vera e propria “maratona creativa”, sui temi della sostenibilità ambientale. Durante la tre-giorni i 35 ragazzi e le 16 ragazze iscritti all’attività, che rientra nel progetto “Energie libere” del Comune di Modena, possono ideare servizi e progetti utili ad agevolare le scelte di imprese e istituzioni, apprendere competenze soft, green e digital, avvicinarsi al mondo del lavoro, in particolare verso i “green jobs” e l’imprenditorialità verde.

Per diventare, quindi, cittadini e lavoratori protagonisti dei processi di transizione ecologica del territorio. Al centro del progetto c’è dunque “l’energia dei ragazzi e delle ragazze – commenta l’assessore alle Politiche giovanili Andrea Bortolamasi – per la Modena del futuro: continua il nostro impegno per una città sempre più attenta alle giovani generazioni, offrendo loro occasioni di formazione e di rinnovato protagonismo”. La quasi totalità dei giovani, 50 su 51, sono studenti delle scuole superiori (Liceo Muratori–San Carlo e Istituto industriale Fermo Corni negli indirizzi Energia, Elettrotecnica e Biotecnologie ambientali); un iscritto studia a Unimore. L’attività si colloca nell’ambito di “Energie libere”, il progetto triennale finalizzato a orientare e facilitare l’ingresso dei ragazzi e ragazze nel mondo del lavoro, offrendo loro occasioni per comprendere quali abilità e conoscenze sia necessario acquisire per lavorare su vari temi, tra cui, appunto, quelli della sostenibilità e della “green economy”.

L’hackaton si svolge in collaborazione con Art-Er e Cna Modena ed è sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna. Durante la tre giorni del percorso, i giovani sono seguiti da due formatori di Art-Er, Marco D’Angelo e Luca Piccinno, e vengono accompagnati da alcuni imprenditori di riferimento di Cna verso l’approfondimento delle tematiche della sostenibilità e la soluzione delle sfide di carattere ambientale. Si tratta, in particolare, di Cesare Galavotti, presidente Cna Area nord, imprenditore del fotovoltaico; Benedetta Spattini, presidente Cna Commercio e turismo, titolare di un portale e-commerce verde e di un’attività di ospitalità extra-alberghiera; Lorenzo Guerzoni, presidente Giovani imprenditori Cna Modena, imprenditore nell’ambito del marketing e della comunicazione digitale; Emanuela Bertini, presidente Cna Comune di Modena e vicepresidente provinciale, imprenditrice nel settore del marketing e della comunicazione; Claudio Medici, presidente Cna Modena; Gennaro Petrillo, componente del consiglio di amministrazione di Cna Formazione.

Tra questi imprenditori c’è anche Marco Malagoli, come detto presidente di CNA Industria Modena, imprenditore nell’ambito dell’energia e presidente Consorzio Cedem di Modena.

Marco Malagoli, da un lato ci sono tantissimi posti di lavoro che restano inoccupati, dall’altro sono tantissimi i diplomati degli istituti professionali che non trovano occupazione tra le vostre maestranze. Come stanno le cose nella realtà?

“C’è un meccanismo che sembra saltato. Ci stiamo interrogando su cosa non sta funzionando nel far incontrare la domanda con l’offerta di lavoro dei nostri diplomati. Una volta questi ragazzi andavano a lavorare come elettricisti o idraulici, o, nel caso dei professionali, come operai. Oggi i diplomati tecnici sono diventati davvero dei buoni tecnici e difficilmente le nostre imprese ne hanno fame, il problema è rappresentato dal lavoro manuale, è di quello che c’è più bisogno. Serve però della gente che abbia delle competenze di base che la rendano occupabile”

E invece?

“E invece vengono fuori delle persone senza competenze di base. Come CNA cerchiamo di tamponare con dei corsi formativi ma non è facile. La scuola dovrebbe cominciare a pensare di restituire degli studenti con delle competenze migliori. Capisco che vengano a scuola perché obbligati ma c’è la sensazione che siccome è obbligatorio li parcheggiano lì. Servono idraulici, elettricisti e altre figure, ma notiamo che c’è gente che non sa come si accende la luce o perché la luce si accende. E’ una cosa che stiamo valutando. Noi imprese come possiamo aiutare nella parte laboratorio? Se un ragazzo che arriva dal professionale non sa usare un tester o non conosce la differenza tra la chiave a brugola e la chiave inglese vuol non ha mai toccato degli strumenti. In più ci è venuto dentro un disagio giovanile profondo degli ultimi anni. Non diamo la colpa alla scuola ma anche agli studenti. Certo, ci sono quelli davvero bravi, ma gli altri sono meno occupabili. Li teniamo, gli diamo la formazione, entrano, gli facciamo fare quello che richiede il titolo, li formiamo in azienda, e poi…”

E poi?

“E poi vediamo che dopo tre, quattro mesi vanno via”.

Motivazione?

“Non ne ho idea. Fanno fatica a stare concentrati. Fanno fatica a stare concentrati su un’attività per più di un’ora. Poi devono staccare”.

Si può tracciare un identikit?

“Gli immigrati di seconda generazione sono quelli messi peggio”.

In passato dunque questo non succedeva?

“Succedeva meno, perché il bacino era costituito di più dagli istituti tecnici che non dai professionali. Dall’Istituto tecnico “Corni” di Modena vengono impiegati come tecnici puri, sopra le maestranze. E le maestranze, che avrebbero dovuto fare quel salto di qualità per farli diventare più vicini a tecnici, il salto non lo hanno fatto, quindi c’è questo buco. In più le dinamiche legate agli immigrati hanno aggravato la situazione. Non si integrano nel sistema sociale nostro e restano in un limbo. Sono ragazzi, figli immigrati, ragazzi che hanno svolto tutto il percorso scolastico qui in Italia, in realtà hanno uno scollamento pesantissimo con la realtà educativa e lavorativa, è un impegno che vedono come gravoso. Eppure vengono da genitori che hanno lavorato davvero sodo, che si sono rotti la schiena, con turni e turni. Il motivo non lo conosco, questo è un tema più da sociologi che da imprenditori. I diplomati africani (subsahariani, ndr) di seconda generazione vengono da famiglie legate al concetto di lavoro e di integrazione e lavorano sodo, i nordafricani sono meno legati al valore del lavoro e del reddito da lavoro come affermazione personale”.

C’è anche un problema di comprensione della lingua?

“Certo, il problema è più evidente rispetto al passato perché oggi c’è un maggior numero di stranieri. Quelli che escono dal professionale hanno un grado di comprensione della lingua italiana che è grave. In molti casi pensavamo a problemi quasi di intelligenza, in realtà capiamo che non riescono a maneggiare il linguaggio rispetto a quello che ci si aspetta dopo che uno ha fatto 13 anni di scuola”.

Addirittura…

“Sa, quando si pensa alla matematica si può immaginare anche a degli insegnanti sbagliati, che conoscevano poco la materia. Ma quando penso al linguaggio allora questa cosa mi mette in allarme. E’ un aspetto che è diventato evidente negli ultimi anni. Se c’è da dare un contributo alla scuola lo facciamo. Noi facciamo un lavoro per cui li prendiamo dentro negli stages del Pcto, specie tra gli impiegati che arrivano dagli istituti tecnici economici. Il problema è che vengono qui la mattina e poi dopo due mesi poi tornano a scuola ma poi non c’è un protocollo che ci lega alla scuola dal quale noi possiamo comprendere ad esempio questa domanda: cosa ti aspetti tu scuola che io insegni ai ragazzi?”

Che cosa servirebbe per far funzionare meglio il Pcto?

“Noi avremmo bisogno di un protocollo preciso in modo da poter sapere che cosa sa fare uno studente che arriva dalla scuola. La sa fare la prima nota? Sa fare registrazione della fattura? Ecco, ci manca questa verifica. E invece finisce che io compilo un modulino ma poi non c’è un feedback, manca quel collegamento operativo per me tutto da sviluppare. Della scuola abbiamo bisogno anche per verificare se l’azienda abbia dato davvero allo studente quel che la scuola si aspettava. La stessa cosa vale per il professionale: c’è bisogno della stessa dinamica. Le imprese che sono in elenco per il Pcto per me vanno formate anche loro, c’è bisogno di un coinvolgimento formativo per preparare il terreno in modo che poi così diventi una formazione reciproca. Noi imprese come possiamo aiutare nella parte laboratorio? Intanto arrivano da noi ragazzi che – ripeto – non sanno usare un tester o non conoscono la differenza tra la chiave a brugola e la chiave inglese. Non hanno mai toccato degli strumenti. Io sarei per farli iniziare direttamente in officina e che imparino subito la questione della disciplina”.

Riscontrate anche problemi di disciplina tra i neoassunti?

“Sì, molti fanno fatica a riconoscere l’autorità. Hanno timore delle persone ma non della gerarchia. Rispettano solo la persona che è in grado di esercitare l’autorità, e questo non succedeva anni fa”.

Senta, ma non è che il problema è che pagate poco i lavoratori?

“La realtà che conosco io è che paghiamo i dipendenti sopra i famosi 9 euro l’ora, arriviamo a 11, il primo stipendio è di 1300-1400 euro. Abbiamo semmai avuto dipendenti che hanno rifiutato l’aumento di stipendio”

Dipendenti che rifiutano l’aumento dello stipendio?

“Lo fanno per non perdere vari benefici, come l’abbattimento delle rette degli asili e altro, gente che preferisce i bonus invece che gli aumenti. La verità è che noi ci teniamo stretti quelli che assumiamo. Quando ci troviamo parliamo proprio di queste cose e proprio stamattina abbiamo parlato dell’inadeguatezza delle maestranze”.

Come uscirne?

“Non lo so. Intanto occorre che le imprese e le scuole si parlino di più. Bisogna facilitare momenti di riflessione, come quella che faccio in questo momento con lei. Io mi ricordo all’Istituto tecnico industriale provinciale “Fermi” di Modena, 35 anni orsono. Molti insegnanti non sapevano insegnare ma venivano dal mondo del lavoro. Il bagaglio di conoscenze era un misto tra competenza e necessità di raccontarci come imparare. E allora forse occorrerebbe riportare gli imprenditori nelle scuole, per capire da dove ripartire. Proprio stamattina, 24 ottobre, vado a un incontro con le scuole a Modena. Verranno delle classi a presentare dei progetti di imprese in un hackaton. Noi ci mettiamo a disposizione degli studenti per vedere se questi progetti hanno un senso. Questo tipo di cosa potrebbe essere un’opportunità. Per me c’è un grande scollegamento tra quel che si fa in impresa e quel che si studia a scuola, specie nelle scuole professionali”.

Che cosa risponde a chi dice che nelle scuole e quindi anche negli istituti professionali gli studenti devono essere preparati a diventare cittadini, non lavoratori?

“Coloro che sostengono questo sono coloro che ci hanno rovinati. Occorre insegnare che il lavoro è dignità. Qualsiasi lavoro ha una propria, grande dignità, anche il lavoro da netturbino è un lavoro dignitosissimo. Peraltro, pensi che le ditte di spurghi non trovano persone da assumere. Ci vuole un minimo di competenza, certo, ma è un settore dove si guadagna molto, eppure…”.

C’è chi sostiene che tocca a voi formare questi studenti, una volta diplomati e assunti. Ci sono insegnanti che protestano sui social contro il Pcto, l’ex alternanza scuola e lavoro.

“Lasciamoli protestare. Non ci possiamo permettere di formare le persone da capo. Imprese che guadagnano dei miliardi non ce ne sono più. C’è bisogno di un coinvolgimento delle imprese nella scuola. Come farlo non lo so, noi siamo a disposizione. Il Pcto è un impegno, se non lo facciamo il tessuto sociale prende un contraccolpo. Basta che ci chiamate e noi ci siamo, veniamo anche a scuola se ci chiamate”.

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, intervenendo sulla riforma degli istituti tecnici e professionali, ha detto che occorre consentire a manager, tecnici e dirigenti di poter insegnare all’interno delle scuole e ha insistito su un nuovo percorso di istruzione superiore ridotto da 5 a 4 anni, seguito da 2 anni di specializzazione presso gli Its. Che cosa ne pensa?

“Non penso che un manager di un’impresa sia indicato per insegnare ai ragazzi, i manager difficilmente hanno competenze di insegnamento. Piuttosto andrebbero coinvolti per un confronto formativo con il corpo docenti, o in assistenza in qualche intervento di laboratorio ai professori, come quello svolto in previsione dell’evento citato, in corso a Modena. Quello che a grandi linee dice Valditara, da prendere coi molloni, va verso quella direzione auspicabile di valorizzazione degli istituti tecnici e professionali. Sulla trasformazione al 4 più 2 sinceramente non saprei cosa dire. Di fondo c’è sempre un brutto modo di dire che i manager sono meglio degli insegnanti a formare i ragazzi. Facendo così si sminuisce il valore del corpo docenti invece di valorizzarlo. Confermo che un confronto diretto tra imprese – manager, titolari e artigiani – e il corpo docenti, porti ad un arricchimento reciproco fondamentale che va perseguito assolutamente”.

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