Dov’è la sorpresa? Perché mai l’esito delle prove Invalsi 2023 avrebbe dovuto o potuto essere diverso da quello considerato pressoché unanimemente disastroso dai media, ma in particolare dai quotidiani italiani, che con qualche rara eccezione hanno preferito anche questa volta intonare il de profundis per la nostra scuola anziché approfondire le ragioni complesse e remote all’origine del disastro, né tantomeno mettere in discussione le metodologie impiegate dall’Invalsi (sulla falsariga dei modelli valutativi quantitativi nordamericani basati sui test) per misurare i livelli di prestazione degli studenti italiani?
Sul primo versante, quello delle origini storico-culturali delle due Italie, che hanno dato luogo anche alle due Scuole di cui parlano i numeri del Rapporto Invalsi, non si sono lette riflessioni (forse date per scontate o perfino banali) che si rifacciano alla pur rilevante letteratura in materia, iniziata nell’Ottocento con le inchieste di Franchetti e Sonnino (1877) e di Villari (1878), poi sviluppata da autori come Fortunato, Salvemini e Gramsci e che anche nell’Italia repubblicana ha dato luogo ad approfondimenti importanti in campo pedagogico (da De Bartolomeis, recentemente scomparso, a Visalberghi), sociologico (da Barbagli-Dei a Cavalli a Benadusi), costituzionale (Cassese) e storico (Galli della Loggia, Scotto di Luzio).
Tutto dimenticato, tutto rimosso per dare spazio alle slides dell’Invalsi, così eloquenti nella geometrica precisione sui livelli e dislivelli delle performance degli studenti sottoposti ai test? Il gioco delle parti sembra invariato perché poco è cambiato. Più volte siamo tornati, come rivista, sul tema della continuità inerziale del sistema scolastico italiano, e dei valori che lo hanno ispirato (preminenza delle discipline umanistiche, selettività meritocratica sia pure decrescente nel tempo – ma più verso un “abbassamento dell’asticella” che verso un’auspicabile personalizzazione che valorizzi i talenti di ciascun studente –, gerarchizzazione delle tipologie di scuola secondaria superiore e dei loro indirizzi): di questo panorama piatto e ripetitivo hanno finito per far parte l’esame di maturità, caso emblematico di resilienza del sistema, e da una quindicina d’anni anche l’esito dei test Invalsi, peraltro preceduti dalle classifiche delle indagini internazionali IEA e Ocse-PISA. A questi elementi di ripetitività possiamo aggiungere i commenti dei ministri di turno, non troppo diversi malgrado la diversità dei governi e delle maggioranze che li hanno nominati.
Non si può fare proprio nulla per spezzare l’incantesimo? Certo, servirebbe una politica scolastica capace di incidere sui ricordati fattori di continuità inerziale del sistema. Ma, prima ancora bisogna porsi una domanda: premesso che le prove standardizzate dell’Invalsi svolgono un ruolo fondamentale per la comprensione e la comparazione degli esiti dell’apprendimento a livello di singola scuola e di sistema, siamo proprio sicuri che questi test (anche quelli delle indagini internazionali) siano gli strumenti più adatti sui quali poggiare tout court – come stanno facendo troppi media e social – la valutazione della qualità della scuola italiana? Tuttoscuola, dopo aver dato ampie informazioni sul sito, ne ha discusso in un webinar andato in onda venerdì 14 luglio con la partecipazione del pedagogista Cristiano Corsini, autore del volume La valutazione che educa, webinar che può essere rivisto cliccando qui. La tematica è importante. Proviamo ad approfondirla in questo numero della newsletter.
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