Riforma tecnici e professionali, se ne parla dal 1961 – Tuttoscuola,

A meno di sorprese questa è la settimana nella quale dovrebbe iniziare in Commissione, al Senato, l’esame del disegno di legge predisposto dal ministro Valditara, varato dal Consiglio dei ministri lo scorso 18 settembre, teso a ridisegnare e rafforzare la filiera dell’istruzione tecnico-professionale attraverso la sperimentazione del modello cosiddetto 4+2: 4 anni, divisi in due bienni, in luogo degli attuali 5 degli istituti tecnici e professionali, e 2 anni, coerenti con l’indirizzo seguito, negli ITS “Academy”.

Il ministro spera di poter portare il provvedimento al voto dell’aula entro il 15 dicembre, e alla Camera agli inizi del 2024, in modo da poter avviare la sperimentazione già dal prossimo anno scolastico 2024-25. Accelerare e correre sì, ma senza perdere per strada passaggi fondamentali, perché come dice il proverbio, “la gatta frettolosa fece i gattini ciechi”. Ma per tempi brevi, i più brevi possibile, si schiera il vicepresidente di Confindustria, Giovanni Brugnoli, che in una intervista rilasciata ad Alessandra Testorio di Adnkronos dichiara di considerare una rapida approvazione del disegno di legge come un “segnale importantissimo di inversione di tendenza, un cambio di passo che finalmente riconosce una necessaria nuova alleanza pubblico-privato”. 

Brugnoli conta su un ampio consenso delle forze politiche a una riforma finalizzata a fronteggiare il problema oggi forse più avvertito dal mondo del lavoro, la mancanza di mano d’opera qualificata. L’ultimo rapporto di Unioncamere, sottolinea il vicepresidente di Confindustria, quantifica nel 48% le “mancate competenze”, e in 38 miliardi di euro il conseguente mancato PIL. Così, commenta, “rischiamo di dover scendere dal podio del secondo paese manufatturiero in Europa”. Per evitare che questo avvenga, spiega, è necessario almeno “portare da 26.000 iscritti attuali a circa 60-80mila le nuove ‘matricole’ ITS nei prossimi tre anni”. Certo, l’Italia resterebbe ancora assai sotto i livelli di iscritti al terziario professionalizzante che si registrano in altri Paesi (880mila in Germania), ma almeno anche in Italia l’industria smetterebbe di essere solo “un luogo per avere un posto di lavoro” per diventare “un luogo dove si può avere un’implementazione di competenze” con una contaminazione positiva tra mondo del lavoro e industria.

Positiva, in questo senso, è  considerata la volontà del governo di procedere alla ricostituzione di una “direzione generale ad hoc all’interno del Ministero dell’Istruzione (che) non vedevamo da 12 anni e che sovraintenderà alla sperimentazione per accelerarne e coordinare l’innovazione”.  

Altrimenti, minaccia Brugnoli “l’alternativa sarebbe quella di fare di necessità virtù e di formare i lavoratori in casa”. 

Ci permettiamo di osservare che se questo fosse stato possibile le imprese italiane lo avrebbero fatto da tempo. In realtà ci hanno provato, almeno le più grandi, ma hanno fallito. La verità è che è sempre mancato in Italia un adeguato piano di investimento pluriennale nell’istruzione tecnica e professionale pubblica. Lo sollecitò già nel 1961 con grande precisione lo SVIMEZ, che in un rapporto cui lavorarono Pasquale Saraceno e un giovanissimo Giuseppe De Rita, quantificò in 1.200.000 unità il fabbisogno di laureati e tecnici superiori da formare entro il 1975 (nel 1959 erano 500.000) e in 4-5 milioni quello di tecnici intermedi (contro gli 1.800.000 esistenti), oltre a 6 milioni di “tecnici subalterni e personale qualificato”. Il rapporto, purtroppo, rimase in un cassetto, e da lì non uscì mai.

Per approfondimenti:

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