La scienziata che ascolta le piante: «Una nuova frontiera»

di Leonardo Caffo

Monica Gagliano: «Ho dimostrato sperimentalmente che sono in grado di imparare e ricordare eventi passati, mostrano e condividono la propria intelligenza. In un certo senso, anche noi stiamo diventando sempre più vegetali»

Monica Gagliano è una delle ricercatrici che stanno cambiando radicalmente il modo che abbiamo di pensare la vita. Le piante parlano? Ci parlano? E che ne è della pianta in noi? Professoressa di Ecologia in Australia, approda sul mercato italiano con il bestseller internazionale appena pubblicato da Nottetempo con il titolo Così parlò la pianta. Se Stefano Mancuso, che con la Gagliano ha lungamente lavorato, ci ha insegnato l’intelligenza delle piante, con questo libro impariamo qualcosa della loro sensibilità, emotività. Qualcosa di rivoluzionario: il punto non è se le piante possano comunicare, ma se possano ascoltarci. La letteratura sulla intelligenza delle piante, o su una metafisica che le riconsideri come soggettività complesse, sembra proliferare.

Questa sua ricerca cosa aggiunge al dibattito?
«Aggiunge la scienza. La scienza dell’intelligenza delle piante. Il mio lavoro è incentrato sulla comunicazione delle piante, in particolare il suono, ma anche – e forse soprattutto – sulle loro abilità cognitive, perché dimostra sperimentalmente che le piante sono in grado di imparare e di ricordare eventi passati. Non mi riferisco al passaggio delle stagioni né alla reazione ai ritmi circadiani (i girasoli che seguono il movimento del sole e ricordano da che parte girarsi), ma dell’apprendimento di nuove esperienze, che non sono necessariamente (o immediatamente) rilevanti per la vita, ma che la pianta può imparare se le percepisce in tale modo. Credo che un elemento che caratterizza il mio libro è l’unione riluttante, almeno all’inizio, tra scienza e metafisica pura. Dico riluttante perché la scienza ha un proprio codice e la metafisica non vi rientra. Eppure, parlando di soggettività delle piante, è inevitabile capire chi sia il soggetto e, parlando di intelligenze non umane, capire chi siano queste alterità intelligenti che mostrano e condividono la propria intelligenza. Quindi voglio spingere i limiti verso un nuovissimo tipo di scienza che ancora non so nemmeno definire, ma che mette insieme la scienza sperimentale e la metafisica – lo spirito, potremmo dire – e le fa dialogare. Forse è questa la nuova frontiera».

Nel libro afferma che «l’esperienza sulla barriera corallina aveva innescato in me un conflitto interiore, mosso dalla consapevolezza che, per me, non esisteva questione scientifica così rilevante da giustificare l’uccisione di un altro essere vivente. Ne conseguì il problema di come condurre la mia ricerca scientifica senza massacri». Ecco, quali sono i limiti morali nella ricerca scientifica sulla vita?
«È una domanda enorme. Che cosa intendiamo con moralità? E che cosa intendiamo con limiti della moralità? Non esiste solo l’umano, il gruppo o la società che promulga determinati codici morali, ma anche altri agenti, altri partecipanti non umani. La ricerca scientifica non è fatta dagli umani sulla vita, ma è fatta dagli umani (a volte) con la vita. E se avviene in collaborazione – all’interno della natura relazionale – allora la vita dovrebbe avere diritto di parola. Dovrebbe poter dire la sua. Quando ho cominciato a lavorare con le piante, per esempio, al termine dell’esperimento le regalavo. La co-creazione è ciò che definiamo scienza. E credo che la scienza moderna, figlia dell’illuminismo, abbia ancora un’immagine molto coloniale di sé. Tutto riguarda la conquista. Parliamo di conquistare i limiti di ciò che è accettabile. Ma se non si tratta di conquistare limiti, ma di co-creare insieme alla vita usando il codice di condotta in modo relazionale, allora il codice è in costante evoluzione con la vita anziché sulla vita. È un’opportunità per la scienza e dovremmo valorizzare l’esplorazione all’interno del territorio relazionale. Ciò che si trova al suo esterno è cattiva scienza».

Più volte ricorre nel testo l’idea di ascoltare le piante, e sembra essere un tentativo complesso di ricongiungere mistica, autobiografia, pensiero scientifico. Ma è davvero possibile nel quotidiano «ascoltare una pianta»?
«Non è solo un’idea. Ascoltare le piante è possibile ed è davvero bello. Ho ascoltato molte piante, soprattutto durante il lockdown, ed è stato molto rassicurante. È una pratica che si può coltivare come la meditazione, lo yoga, la corsa. Ovviamente è molto stratificata, ma al livello più elementare bastano un microfono e un piccolo registratore; in laboratorio, con l’attrezzatura più sofisticata, la definizione è più alta, ma a livello elementare basta trovare un albero bello grande (perché così è più semplice) e registrare con un microfono. E via, si parte da lì, si passa del tempo con questa alterità e si instaura con essa una connessione insolita, che quindi porta ad aprire degli aspetti di noi rimasti dormienti o silenti a lungo. Poi chissà. Se ci si esercita ad acquietare la propria mente, si potrebbe persino non averne più bisogno – la tecnologia è semplicemente un’estensione dei nostri corpi. Forse a un certo punto basterà sedersi e ascoltare la pianta. So che sembra tutto un po’ hippie, ma non lo è per niente. È una pratica molto concreta, tanto che ricevo molti commenti di persone che hanno letto il libro: “Lo faccio anche io e questa e quella pianta mi parlano”. Incredibile quante persone ascoltano le piante come pratica quotidiana. Dovremmo rimuovere il tabù e la vergogna che la circonda, perché fa parte del nostro essere umani qui e in relazione con gli altri».

Cosa significa «pianta in noi»?
«Significa letteralmente la pianta dentro di noi. E intendo in modo molto viscerale, corporeo – la carne di cui siamo fatti, il respiro che ci muove e alimenta i nostri corpi. Abbiamo questa illusione, la prospettiva molto moderna e occidentale, di abitare dei corpi sigillati rispetto al mondo esterno. Invece i nostri corpi sono sistemi aperti, permeabili, che interagiscono con l’esterno incorporando gli altri, in questo caso le piante. Se vogliamo spostarci verso un’accezione metafisica, attraverso certi processi di cui parlo nel libro incorporiamo l’essenza, l’anima o lo spirito che risiede nella pianta. In quel senso dunque diventiamo una collettività, all’interno del mondo psichico in cui il corpo è costantemente fatto e rifatto e inventato da molti. Dunque sorge la domanda: cosa è umano? L’umano non è forse una collettività? E poi c’è l’aspetto più metafisico del corpo, animato da un’anima che non è solo umana. La pianta in noi è una componente molto importante di ciò che ci rende umani, eppure sembra essere la più ignorata e dimenticata. Respiriamo le piante, mangiamo le piante, in un certo senso stiamo diventando sempre più vegetali».

È un libro molto personale, in cui la vita umana viene totalmente ripensata. Possiamo capire le piante con la razionalità scientifica o ci serve un atto finale di messa in discussione dell’antropocentrismo? Anche imparando a pensare da vegetali.
«Sono un po’ confusa dalla sua domanda perché mi sembra di capire che possiamo farlo o scientificamente e razionalmente oppure abbandonando l’antropocentrismo, cioè che le due cose si escludano a vicenda. Dal mio punto di vista, la razionalità scientifica è solo parte di un metodo: può essere un metodo molto potente, dunque perché disfarcene? Dal mio punto di vista possiamo essere soltanto antropocentrici: al centro della nostra esperienza c’è l’umano, perché siamo umani. Dunque questa è la prospettiva e l’esperienza attraverso cui sperimentiamo il mondo. Non significa però che non possiamo empatizzare con l’altro. Quando l’antropocentrismo è impugnato come arma dall’agenda coloniale, differenziamo l’umano dal resto. Le gerarchie ci hanno collocato concettualmente al di fuori del nostro regno – quello animale – e chiaramente al di sopra di ogni altra forma di vita. Ci siamo eletti a metro di paragone per tutte le altre specie. Ma in questo modo come risolviamo il dilemma di conoscere l’altro? È impossibile. L’atto finale di messa in discussione dell’antropocentrico, a mio parere, è una differenza nella qualità: capire che abbiamo esperienze umane e che questo ci limita alla nostra prospettiva umana, ma anziché usarla come arma contro gli altri, dovremmo approcciarci con umiltà. Allora il resto del mondo si aprirà a noi e ci ridarà il benvenuto a casa. Perché, nella mia esperienza, non aspettava altro».

30 ottobre 2022 (modifica il 30 ottobre 2022 | 14:58)

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, 2022-10-30 14:00:00, Monica Gagliano: «Ho dimostrato sperimentalmente che sono in grado di imparare e ricordare eventi passati, mostrano e condividono la propria intelligenza. In un certo senso, anche noi stiamo diventando sempre più vegetali», Leonardo Caffo

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