Simone Moro: «L’impresa di cui vado fiero? Essere vivo e avere dieci dita. A Bergamo ho tanti nemici»

di Riccardo Bruno

L’alpinista: Nella mia vita privata ho fatto un po’ di casini. A 15 anni scrissi una lettera a Messner chiedendogli di scalare con lui. Poi siamo diventati amici: al suo matrimonio ero uno degli unici due alpinisti invitati

Di nuovo in partenza?
Sar una spedizione all’insegna del 5. Ho 55 anni, per la quinta volta tento il Manaslu, se ci riesco sar il mio quinto Ottomila invernale, esattamente 25 anni dopo la tragedia sull’Annapurna.

Il punto di forza dell’alpinista Simone Moro la sua mentalit matematica. Per l’intervista d appuntamento alle 9.50 (Prima vado a correre). Alle dieci meno dieci in punto sbuca dall’ultima curva sotto casa, sulle colline di Bergamo, da cui si ammira una corona di cime fino al Monte Rosa. Andare oltre i limiti, ma con razionalit, il segno della sua carriera.

Con il Manaslu ha un conto in sospeso.
Con lucidit devo riconoscere che nei quattro tentativi precedenti, tre mesi per ognuno, quindi un anno della mia vita, sono riuscito ad arrivare solo a 6.200 metri, un tragitto che in genere compio in tre ore. Il Manaslu considerato uno dei pi facili in stagione propizia, questo spiega bene quanto cambino i giochi se si va d’inverno.

Sar la sua 72esima spedizione, 22 delle quali nella stagione fredda.
Nell’ottobre 1992 feci la mia prima sull’Everest, tra l’altro non and bene perch mi sentii male. Di questi trent’anni, ne ho passati 18 nei luoghi pi alti, pi remoti, pi freddi, potenzialmente pi ostili del Pianeta. E pi di 5 a temperature tra i -10 e -70 gradi. Essere vivo oggi il vero risultato di cui vado fiero. E in pi avere tutte le dita delle mani e dei piedi.

Il segreto?
innegabile che ho avuto una giusta dose di fortuna. Per, se io fossi stato uno che giocava tutto sul va e la spacca, adesso non sarei qui. Bisogna mettere in conto sin dall’inizio che ci saranno tante rinunce e fallimenti. Non a caso Messner dice che l’alpinismo d’alto livello l’arte del sopravvivere, non quella di scalare.

Lei cita spesso anche un altro grande del passato, Riccardo Cassin.
Quando iniziai venni sponsorizzato dalla sua azienda. Una volta, accompagnandomi tra gli scaffali, mi ammon: “Per te non sar difficile diventare un grande alpinista, ma un grande vecchio alpinista”. E me lo disse uno che morto a 100 anni. Diciamo che sono riuscito a sopravvivere all’irruenza dei vent’anni, quando ti senti immortale e invincibile.

Il primo ricordo della montagna?
A sei anni, il sentiero delle Orobie fatto con mio padre Franco. Semplice escursionismo.

La prima scalata?
A tredici anni, i Torrioni della Cornagera in Val Brembana. Mio padre lavorava in banca, non era uno scalatore, fece il corso roccia del Cai per potermi seguire. Un giorno gli dissi che volevo abbandonare la scuola per dedicarmi all’alpinismo. Mi rispose: “Se questo il tuo limite”. Io non capivo. Aggiunse: Se puoi fare solo una cosa delle due, questo il tuo limite”. Compresi la lezione, mi sono diplomato, poi laureato e ho seguito lo stesso il mio sogno.

Chi era il suo modello di riferimento?
Messner era il mio faro, conoscevo e leggevo tutto su di lui. All’et di quindici anni, visto che c’era chi metteva in dubbio la sua impresa sul Sass dla Crusc, gli mandai una lettera scrivendogli che io non avevo dubbi e mi offrivo per rifarla con lui. Mi rispose con una cartolina, ovviamente per dirmi che non era possibile. Dopo lo incontrai un paio di volte in occasione di conferenze, finch non siamo diventati grandi amici. Al suo ultimo matrimonio io e Peter Habeler eravamo gli unici alpinisti invitati.

Che ambiente il vostro? C’ pi solidariet o rivalit?
un mondo poco incline ad apprezzare i virtuosismi e le celebrit. Altri sport, come il calcio o il golf vivono di questo, invece nella nostra piccola comunit si pensa che diventare famoso significa mercificare un ambiente sacro. Gli alpinisti pensano che la montagna sia il loro club, il loro piccolo orticello. E il montanaro in genere una persona abbastanza rancorosa, incline al conflitto e alle gelosie. La notoriet e la fama vengono accettate a fatica.

Chi l’ha delusa di pi?
Se dovessi dire il luogo dove ho pi nemici, direi la mia citt. Per fortuna non ho mai cercato di piacere a questa gente. I miei genitori mi hanno insegnato che bisogna togliersi il cappello davanti a chi pi bravo di te. Sono stato educato al rispetto e alla stima verso gli altri, ingenuamente ho pensato che fosse un’educazione universale. Essere capace di parlare e scrivere nel mio mondo visto come se fosse una colpa.

E quando si in cordata?
In montagna si tutti sulla stessa barca e bisognare remare insieme. Allo stesso tempo dico che la montagna non eleva e non cambia le persone. Se sei cattivo in citt, lo sei anche in vetta. La montagna pu essere una bella scuola, ma ci sono tanti bocciati. E ce ne sono sempre di pi, perch sono aumentati i frequentatori.

Lei ha ricevuto la Medaglia d’oro al valor civile dopo l’incredibile salvataggio di uno scalatore inglese sul Lhotse.
un onore e una responsabilit. la pi alta onorificenza della Repubblica, mi d un piacere immenso, anche se rimanere un simbolo da vivo durissima. Non sono incline alla santit.

Abbandon la sua scalata e rischi la vita.
Ho fatto uno sforzo fisico che ancora adesso faccio fatica a spiegarmelo.

Il momento pi difficile in questi trent’anni?
Il giorno di Natale del 1997, sull’Annapurna. Siamo partiti in tre, sono tornato a casa solo io. Non avevo mai scalato un Ottomila d’inverno, la parete sud era inviolata, c’era tantissima neve, cadevano valanghe tutti i giorni. Non dico che fu un azzardo, ma una perseveranza stupida. Con l’esperienza che ho acquisito, oggi rinuncerei prima. Se fossimo tornati indietro avrei con me Anatolij Bukreev, il pi grande amico che ho avuto e uno dei pi grandi alpinisti della storia.

Vi travolse una valanga, mor anche Dmitrij Sobolev. Lei venne salvato con un elicottero.
Secondo me nata l, in maniera inconsapevole, la voglia di fare qualcosa. In quel momento ho deciso che avrei ripagato la fortuna che avevo avuto. In Himalaya non esiste un equivalente del Soccorso alpino, non c’ un’organizzazione. Non poteva continuare cos, non solo per aiutare gli alpinisti in difficolt, ma anche la mamma nepalese che deve partorire o l’anziano che ha una frattura. Ho pensato: io del Nepal conosco ogni sasso, se divento pilota di elicottero posso fare la differenza.

Ed diventato il suo secondo lavoro.
Tutti gli anni dedico alcuni mesi della mia vita a fare soccorso in Nepal. Ho effettuato tanti salvataggi, sono atterrato a 7.000 metri, una volta mi nato un bambino a bordo.

E in Italia?
Ho una societ e faccio varie cose, anche vivere momenti privati sorvolando le montagne con coloro che vogliono sentire la mia narrazione. E credo anche di aver contribuito ad amare un po’ pi questo mezzo. Che come l’alpinista famoso, va odiato a prescindere, visto come una cosa da vip o da ricchi. l’angelo che viene dal cielo solo quando per il soccorso, tutti gli altri vanno abbattuti.

Cosa fa Simone Moro nel tempo libero?
Sto il pi possibile con i miei figli, Martina che ha 23 anni e Jonas di 12 che vive con la mamma. Nella vita personale ho fatto un po’ di casini.

Ha anche un asino.
Si chiama Baloss, in bergamasco significa furbo. E ho pure 9 capre. In futuro mi piacerebbe avere una cascina.

Torniamo agli Ottomila, ormai sembrano diventati un circo: code in vetta, grandi interessi economici.
La tragedia del 1996 sull’Everest (8 morti, ndr) non solo non stato un monito, anzi forse stato l’inizio di una nuova era di proposta turistica d’alta quota. un fenomeno che prima era in mano solo agli occidentali, mentre oggi quasi esclusivamente gestito dalle popolazioni locali, e questo comunque un bene perch porta risorse in quelle zone. Ormai ai campi base ci sono letti, il bar con gli alcolici, la bakery che sforna pane e dolci, tende riscaldate con la moquette. Ad alcuni fanno fare il corso di alpinismo direttamente l, una montagnetta intermedia e poi li portano sull’Ottomila. Non questo il mio modo di fare alpinismo. Ho sempre scalato in due, massimo tre persone, senza farmi preparare la via da sherpa e niente ossigeno, a parte per l’Everest dove vorr tornare senza. Sul Makalu nel 2009, con Denis Urubko, ho fatto la pi leggera invernale della storia. Ci prendevano in giro, stata una pietra miliare.

C’ ancora spazio per un alpinismo pi romantico?
Io sono ottimista sul futuro, perch adesso veramente chiaro ci che sta avvenendo sulle vie normali degli Ottomila con le spedizioni commerciali. Ci sono per tanti giovani preparati, anche italiani, che stanno facendo alpinismo esplorativo. Magari sono poco conosciuti, perch si dedicano poco alla narrazione.

Ha anche condotto il reality Monte Bianco.
Il pregio di quel programma, pur negli evidenti limiti che ha mostrato, che per la prima volta si riusciti a portare la montagna in prima serata. Il mio mondo per, invece di apprezzare lo sforzo che ho fatto per tamponare certe scelte, l’ha preso come se fosse un corso di roccia televisivo e ha fatto la lista di tutte le cose che non andavano bene.

Lo rifarebbe?
Mi piacerebbe condurre una trasmissione che raccontasse storie e luoghi, una versione attuale dei reportage di Bonatti. Non dovrebbe essere l’apoteosi del no limits o dell’estremo, una parola che io non uso mai

Per quale motivo?
Perch stata abusata. L’estremo andare tutte le mattine alle 5 al lavoro, convivere con una malattia o con la povert. Tutto ci di pericoloso che noi alpinisti facciamo per una nostra scelta.

6 dicembre 2022 (modifica il 6 dicembre 2022 | 08:00)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-12-06 09:23:00, L’alpinista: «Nella mia vita privata ho fatto un po’ di casini. A 15 anni scrissi una lettera a Messner chiedendogli di scalare con lui. Poi siamo diventati amici: al suo matrimonio ero uno degli unici due alpinisti invitati», Riccardo Bruno

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Exit mobile version