Sintassi poco coesa. Studenti sconoscono significato di contingente e lenire’. Tutta colpa dei social? Il latino dà una marcia in più. INTERVISTA a Rita Librandi

Istituire un Consiglio Superiore della Lingua Italiana, minacciata dall’utilizzo dei termini stranieri: è questa la proposta del sottosegretario all’Istruzione e al Merito Paola Frassinetti.
Quanto è utile alla scuola italiana? Come parlano gli studenti di oggi, come scrivono? E quanto conoscono la lingua italiana?

Ne ha parlato a Orizzonte Scuola, alla vigilia dell’uscita del suo ultimo libro Profilo Storico della lingua italiana, edito a breve da Carocci, Rita Librandi. Già professoressa ordinaria di Linguistica italiana e di Storia della lingua italiana all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e, dal 2013, accademica ordinaria dell’Accademia della Crusca, dove è responsabile della sezione scuola e coordinatrice dei corsi di Formazione della lingua italiana per i docenti. Che ricorda come: “Prendersi cura di una lingua significa soprattutto sostenere con il massimo impegno l’istruzione inferiore e superiore, magari pensando all’istituzione del tempo pieno in tutte le scuole, anche per restituire a discipline fondamentali come l’italiano e la matematica lo spazio necessario e per agevolare l’apprendimento degli studenti più disagiati. Occorrono, è ovvio, maggiori investimenti, ma si tratta di investimenti per il futuro del paese”.

Professoressa, lei ha tenuto lezioni all’interno di Erasmus, all’Università di Toronto, è stata preside di facoltà nell’Università della Basilicata, delegata alla ricerca dell’Università L’Orientale ed è tutt’ora responsabile di Crusca Scuola, per dirla in poche parole, ha insegnato ai giovani di mezzo mondo. Può darci un parere sulla proposta del sottosegretario Frassinetti?

La proposta di istituire un Consiglio Superiore della Lingua Italiana mi lascia perplessa, sia perché non è chiaro il ruolo che dovrebbe svolgere sia perché in Italia esistono già istituzioni che si occupano di cura, studio e diffusione della lingua italiana, a cominciare dall’Accademia della Crusca. Se poi la motivazione è difendere la nostra lingua dalla minaccia dei termini stranieri, occorre fare alcune precisazioni essenziali. Se pensiamo, infatti, agli anglismi usati quotidianamente dai parlanti, si tratta di dinamiche che da sempre hanno caratterizzato le lingue: molti termini stranieri, oggi soprattutto anglismi, entrano per moda e poi scompaiono, altri riescono ad acclimatarsi bene nella lingua, adeguandosi talvolta anche alle sue caratteristiche morfologiche. Direi piuttosto che la vera minaccia, non solo per l’italiano ma per molte altre lingue europee, è rappresentata dalla restrizione del lessico tecnico-scientifico, che sempre più spesso è formato tramite l’importazione di anglismi. Se una lingua rinuncia a forgiare le parole della medicina, della fisica, dell’economia e così via dicendo, si avvia, sia pure lentamente, verso la dialettizzazione.

Pensiamo, per fare un esempio più chiaro, ai bellissimi dialetti della nostra penisola: hanno tutti lo statuto di lingue, perché tutti derivano dal latino, tutti sono dotati di una propria morfologia; possiamo adoperarli per parlare di quotidianità, di emozioni, di sentimenti, ma non possiamo usarli per parlare di genetica o di astronomia, perché mancano del lessico scientifico. Curare la formazione dei tecnicismi, inoltre, è importante non solo per salvaguardare le nostre lingue ma anche per assicurare la comunicazione con il grande pubblico. È giustissimo usare l’inglese come lingua di comunicazione tra studiosi e scienziati, ma è anche doveroso pensare al modo di veicolare i contenuti scientifici ai non esperti, magari pensando a un sistema ampio e sistematico di traduzione di saggi e articoli: che è un lavoro costoso e complesso, ma sarebbe corretto pensarci.

L’Unesco definisce dal 1984 l’analfabetismo funzionale come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società”. Può dirci a che punto siamo nel 2023?

Intanto vorrei dire che rispetto a cinquanta o sessant’anni fa la lingua italiana oggi gode di buona salute. Appena usciti dalla Seconda guerra mondiale l’italiano non veniva adoperato da tutti e per tutti gli usi, ma a partire dagli anni Cinquanta/Sessanta è diventato veramente la lingua di tutti, da tutti compresa e da tutti adoperata, ovviamente con minore o maggiore competenza, in ogni situazione. È giusto osservare, tra l’altro, che, nonostante le previsioni negative che alcuni linguisti facevano fino a qualche decennio fa, i nostri dialetti continuano a vivere: siamo riusciti a creare una convivenza pacifica nella divisione degli spazi comunicativi. Esiste, però, ancora nel 2023, il problema del cosiddetto analfabetismo funzionale, che non consente a persone capaci di leggere e scrivere di comprendere e produrre testi complessi. Ciò comporta, com’è facile immaginare, anche l’incapacità di agire e reagire da cittadini consapevoli di fronte ad avvenimenti politici, sociali ed economici. Le cause sono tante, prima tra tutte l’incompleta formazione scolastica e la scarsezza, se non assenza, di letture di giornali e di testi che non siano solo i messaggi dei social.

Quale è allora il compito a cui è chiamata la scuola, oggi, per conservare e valorizzare sempre di più la lingua italiana?

Bisogna puntare di nuovo, e più che mai, sull’educazione linguistica. È ovviamente importante curare la capacità di esprimersi oralmente, ma oggi è forse ancor più rilevante puntare l’attenzione su comprensione e produzione di testi scritti. L’educazione linguistica in Italia è mediamente molto ben curata nelle scuole primarie; è ancora seguita, ma con poca sistematicità, nelle scuole secondarie di primo grado, ma è quasi del tutto assente nelle scuole superiori.

Come mai?

L’addestramento all’uso dell’italiano dovrebbe essere un’educazione permanente. Nelle superiori, in particolare, si danno per scontate competenze che quasi mai sono state pienamente raggiunte dagli studenti. Nei corsi di formazione, i docenti di italiano si lamentano giustamente dello scarso numero di ore a loro assegnato, un numero che li costringe a insistere solo sull’insegnamento della letteratura e al più a fare qualche osservazione linguistica sul testo letterario. Lo studio della letteratura è fondamentale, ma oggi non possiamo più pensare che sia la letteratura a fornire il modello di italiano scritto cui adeguarsi. La riflessione e l’esercizio sulla lingua dovrebbero sempre avere un proprio spazio autonomo e si dovrebbero addestrare gli studenti ad adeguare il proprio italiano a ogni tipo di testo, da quello argomentativo, saggistico, professionale a quello divulgativo o informale o privato. Il pianoforte si suona usando l’intera tastiera; se siamo capaci di usare solo alcuni tasti produrremo forse una musichetta banale ma mai una sinfonia.

Quanti sono i docenti che aderiscono ai vostri corsi?

Sia ai corsi organizzati dall’Accademia della Crusca sia a quelli gestiti dalla Fondazione “I Lincei per la scuola”, le adesioni sono tantissime. Di solito, per riuscire a gestire nel miglior modo possibile i laboratori, mettiamo un limite di 100 frequentanti che si raggiunge sempre. I corsi sono spesso erogati in modalità mista, sia in presenza sia a distanza, e questo consente talvolta di accogliere altri iscritti.

Come si svolgono i corsi?

Si compongono sempre di lezioni frontali e di laboratori. A questi ultimi diamo particolare importanza, perché si lavora insieme con gli insegnanti e si applicano metodi e strumenti. I contenuti cambiano ogni anno in base all’argomento scelto: se, per esempio, ci si concentra sul lessico, si lavora su esercizi per la comprensione e il giusto uso delle parole o anche sull’impiego dei dizionari, insegnando, tra l’altro, il modo in cui vanno presentate agli studenti le voci dei dizionari, le informazioni che forniscono sugli aspetti grammaticali, sui significati, sulle reggenze e così via. Oggi, tra l’altro, nonostante le tante buone risorse online gratuite, quasi nessuno (a cominciare purtroppo dagli studenti) consulta più i dizionari per conoscere usi, significati, estensioni metaforiche delle parole: è un limite grave.

Lessico e sintassi sono oggi un problema per gli studenti, che tra l’altro spesso inciampano anche in errori grossolani di ortografia. Che cosa manca nella scuola di oggi e come si possono far convivere in classe social media e letteratura italiana?

Non si può negare che ancora negli ultimi anni delle superiori e persino all’università si incontrino errori di ortografia negli elaborati degli studenti. Non sono però così diffusi. Sono invece più diffuse le difficoltà a costruire una sintassi ben coesa e lineare e ad adoperare un lessico sempre pertinente e adeguato al testo. Fino all’anno scorso, all’inizio di ogni anno accademico, mostravo agli studenti del primo anno del triennio un elenco di parole, chiedendo se ne conoscessero il significato. Si trattava di parole non adoperate nella comunicazione quotidiana ma non specialistiche; purtroppo il numero di coloro che conoscevano termini come contingente, eludere, lenire e simili diventava ogni anno più esiguo.

Si è molto ristretto, come dicevo lo spazio destinato alla lettura; anche gli studenti universitari mi rivelavano di leggere solo ciò che era necessario per il superamento degli esami. Pur destinando così tante ore scolastiche allo studio della letteratura, solo raramente ciò si trasforma nella passione di leggere, forse perché si bada troppo alle figure retoriche o ad altri aspetti formali e non si dà modo ai ragazzi di appassionarsi alle emozioni che la letteratura trasmette. È gravissimo, inoltre, il fatto che non si leggano più i giornali, anche le versioni online vanno bene, ma purtroppo ci si informa quasi esclusivamente tramite le notizie diffuse dai social. Gli articoli di fondo, di cui si dovrebbe spiegare ai ragazzi il senso e l’importanza, e il cui modello di scrittura è spesso utile, sono letti ormai da pochissimi interessati. Con ciò non voglio condannare l’uso di social o di nuove tecnologie, che sono parte integrante della nostra realtà, ma si dovrebbe cercare un equilibrio, la giusta virtù nel mezzo, come dicevano i latini.

A proposito di latino. Ha ancora senso lo studio delle lingue classiche nella scuola di oggi?

Se lo chiede a me, la risposta è chiaramente un sì. Oggi, tuttavia, il latino aiuta a riflettere sulla lingua e chi lo studia adeguatamente ha sicuramente una marcia in più nel riconoscere strutture e funzionamento dell’italiano. Che questo però sia sufficiente a raggiungere una piena competenza nella comprensione e produzione di testi scritti e orali non è più vero. Penso che sia più che giusto continuare a sostenere e valorizzare i licei classici, ma ritengo che si possa raggiungere una piena competenza dell’italiano anche scegliendo altri indirizzi, purché si dia allo studio della lingua uno spazio ampio e un impegno costante.

Il 20 aprile c’è la finale dei campionati di Italiano che ogni anno radunano migliaia di studenti da tutta Italia. Lei fa parte della giuria, c’è un vincitore che le è rimasto particolarmente nel cuore?

Intanto mi lasci ricordare che alla prima selezione dei Campionati di italiano 2022-23 (fino all’anno scorso chiamati Olimpiadi di italiano) si sono iscritte 1258 scuole e hanno partecipato 20332 studenti. Dopo la seconda selezione, sono arrivati alla finale in 54, cui vanno aggiunti gli studenti delle scuole italiane all’estero.

Tra gli studenti vincitori delle precedenti edizioni, ricordo con piacere la vincitrice del 2016, veramente molto brava e intenzionata a studiare non Lettere ma Medicina. Ricordo anche che riuscì a superare brillantemente i test di accesso alla Facoltà di medicina e lo rammento con piacere perché è questo l’obiettivo cui si dovrebbe puntare: l’ottima conoscenza dell’italiano è un requisito sempre e comunque necessario, anche per chi intende dedicarsi agli studi e alle professioni tecnico-scientifiche. Per un medico, peraltro, essere in grado di dominare il linguaggio specialistico e di saperlo tradurre in modo semplice ma mai approssimativo per i propri pazienti è fondamentale.

Per concludere, qual è il consiglio che si sente di dare a docenti e studenti?

Trovare una formula conclusiva che sintetizzi in poche parole la soluzione è ovviamente impossibile. Ciò che sento però la necessità di ricordare è che la lingua non ammette prescrizioni dall’alto: la vera autorità in materia di lingua è sempre la comunità linguistica, l’insieme dei parlanti. Molto prima dei linguisti contemporanei lo aveva detto già Alessandro Manzoni, di cui ricorrono quest’anno i 150 anni dalla morte. Ogni tentativo di scrivere leggi che condizionino gli usi, le parole, le forme è sempre fallito ed è nella natura delle lingue rifiutare imposizioni dall’alto. L’Accademia della Crusca, per esempio, fornisce sempre molti consigli per migliorare la comunicazione delle pubbliche amministrazioni con i cittadini, perché e vero che tante disposizioni e circolari sono infarcite di anglismi poco noti e soprattutto presentano sia una sintassi contorta sia una cattiva gestione delle informazioni. Si tratta di consigli che sarebbe opportuno seguire, soprattutto curando la formazione del personale, ma non si tratta mai di prescrizioni.

È vero, d’altro canto che in ogni comunità linguistica ci sono due forze contrapposte: una tende ad accelerare le innovazioni (per esempio i media), l’altra a sorvegliare la conservazione (per esempio le istituzioni destinate alla formazione). L’equilibrio sta, ancora una volta, nel mezzo, perché ogni lingua è destinata contemporaneamente a innovarsi e a mantenersi o comunque a far sì che i cambiamenti avvengano con la giusta lentezza, in modo da garantire sempre la comprensione tra i parlanti.

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