Storie di vita, lodissea dei pendolari-precari della scuola: Non cè niente di rilassante nel rincorrere la speranza di un posto di lavoro sicuro

Non solo la storia di Giuseppina, la collaboratrice scolastica pendolare. C’è un mondo di docenti e Ata che ogni giorno viaggiano dai loro luoghi di origine per raggiungere le sedi di lavoro.

Orizzonte Scuola pubblica il contributo di Anna Porzio, rappresentante di un gruppo di insegnanti e Ata che, ogni giorno, macinano chilometri per prestare servizio.

I viaggi di cui vi racconto non sono fatti di tramonti romantici e spiagge assolate su cui distendersi e rilassarsi, poiché di rilassante non c’è nulla quando si è costretti ogni giorno ad alzarsi alle quattro del mattino per rincorrere la speranza di un posto di lavoro sicuro. Come Luisa, che ogni mattina per recarsi a scuola a Roma, dove era stata convocata, è stata costretta a prendere un treno. Andata e ritorno, il viaggio della speranza, un sacrificio volto alla conquista di un posto sicuro che potesse garantire a lei e alla sua famiglia una vita decente. La convocazione miracolosa è arrivata come un fulmine a ciel sereno.

“Era il 7 Gennaio 2020, ero intenta a ripulire la veranda di una signora, avevo perso il lavoro da poco, arrangiavo con le pulizie” ci racconta Luisa. Sarebbe dovuta partire il giorno dopo, tante cose da sistemare, le insicurezze e le preoccupazioni per i suoi due figli, entrambi piccolissimi. Quei due bambini di 4 e 10 anni a cui chiede scusa per la prolungata assenza e il poco tempo a casa. Ma è per loro che lei decide di partire, affronta ogni giorno per due anni un viaggio di tre ore e mezza con il Freccia Rossa e poi la metropolitana che la porterà alla fermata Lepanto, dove prende un autobus, il 301, 54 fermate infernali. Le ha contate lei stessa, e commossa mi dice che nonostante la fatica immane era contenta. Rientra tardi a casa e tra le tante cose da fare è felice perché le piace il suo lavoro da collaboratrice scolastica, visto come il raggio di luce del suo futuro. Suo e dei suoi amati bambini.

La stessa sorte è toccata a Barbara, Giovanna, Giovanni, e Lucia. Esseri umani come noi e come voi, ordinari e straordinari, che hanno indossato le vesti del sacrificio, tutto per il bene di sé stessi e della propria famiglia. Barbara è una giovane ragazza di 30 anni del napoletano, che per accumulare punti ed aumentare la propria posizione nelle graduatorie ATA ha accettato una convocazione presso un istituto in provincia di Vicenza. I 722 chilometri che separano la sua città natale dalla città presso la quale ha lavorato l’hanno costretta a trasferirsi.

Fortuna nella sfortuna, ha avuto la possibilità di risiedere presso l’abitazione di alcuni zii, che l’hanno supportata in questo duro periodo della sua vita. “La scuola era ubicata in montagna, irraggiungibile sia a piedi che con i mezzi pubblici. Mio zio mi accompagnava al mattino e tornava a riprendermi il pomeriggio. É stato un anno duro, fisicamente ma soprattutto mentalmente” queste le sue parole.

Un’altra storia toccante è quella di Giovanna, madre di due figli adolescenti, sola e senza genitori, che ha affrontato lunghi viaggi giornalieri per raggiungere la scuola nella quale era impiegata a Roma. Proprio come la protagonista della nostra prima testimonianza, per amore della sua famiglia decide di accettare l’incarico. Vuole essere un esempio per i suoi figli, e nonostante la fatica e la sofferenza non ha voluto rinunciare alla sua dignità lavorativa. Sfido chiunque a mettersi nei panni di questi supereroi reali, individui comuni che affrontano difficoltà e che non vogliono saperne di darsi per vinti.

Le ultime storie di cui voglio parlarvi, non per importanza, sono quelle di Lucia e di Giovanni. Giovanni è un uomo residente nella provincia di Caserta, che pur di lavorare si sposta fino a Siena ogni mattina. Non avendo nessuno con cui dividere le spese di affitto, ha dovuto sopportare lunghi ed estenuanti viaggi ogni giorno, per sette mesi e mezzo.

Ad oggi, Giovanni e tutti coloro che sono stati “usati” come organico aggiuntivo Covid sono senza lavoro, senza
certezze per il futuro, ma accomunati dall’incrollabile speranza che tutto ciò possa cambiare al più presto. L’ultima delle storie che voglio raccontarvi è quella di Lucia. La sua è una storia materialmente diversa dalle altre, ma ugualmente straziante nello spirito. Ha la fortuna di poter lavorare nei comuni limitrofi al suo comune di residenza, ma le difficoltà mettono ugualmente in ginocchio lei e la sua famiglia.

Con l’arrivo della pandemia suo marito perde il lavoro, ma ad Ottobre 2020 si intravede uno spiraglio di luce. Riceve una convocazione presso una scuola di Napoli, e a causa della lontananza dall’istituto decide di spostarsi a casa dei suoi genitori, più vicina. Ogni mattina prende l’autobus alle 6:45 del mattino per recarsi al lavoro, lasciando a casa i suoi figli piccolissimi. Rientra la sera dopo le 17, sfinita, ma va avanti. Successivamente riceve un incarico presso un’altra scuola, quella di suo figlio, potendo fare così ritorno a casa propria. Lavora fino al termine dell’anno scolastico, ma il suo stipendio tarda ad arrivare. Attende con ansia per molto tempo, circa sei mesi, prima di poter ricevere il suo sudato compenso. Niente di straordinario nel sacrificio atto al lavoro ma vedersi togliere quel lavoro nel quale ognuno di noi ha creduto è disumano.

Dietro le mascherine che abbiamo indossato a scuola ci sono i volti di 55.000 lavoratori del comparto scuola che ad oggi attendono risposte da un governo sordo. Dietro quelle mascherine ci vedrete volti dagli occhi stanchi ma dal sorriso sempre pronto ad affrontare un lavoro che amano.

Si, avete letto bene, che amano, perché se cosi non fosse stato ognuno di loro avrebbe avuto la possibilità di chiedere il congedo parentale. Ciò non è successo perché era più forte la voglia di lavorare. La dignità non ha prezzo, e non permetteremo a nessuno di togliercela, vogliamo ritornare a scuola perché ci abbiamo creduto, e continueremo a farlo.

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