Telecronisti, più cautela sull’uso della parola «predestinato»

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Tutte le volte che qualche sportivo viene gratificato della predestinazione, perde irrimediabilmente: in campo sportivo esiste piuttosto la predisposizione

I telecronisti dovrebbero usare con più cautela la parola «predestinato». Per tanti motivi, il primo dei quali è che non porta bene. Tutte le volte che qualche sportivo viene gratificato della predestinazione, perde irrimediabilmente: la macchina gli va in fumo (ogni riferimento è puramente…), il ginocchio cede, un male si accanisce prima di un torneo, cose del genere. Se sento ancora dire che Charles Leclerc è un predestinato, giuro che querelo per diffamazione. Predestinato si dice di una persona la cui sorte futura è stabilita; dunque c’è di mezzo il destino. E il destino, si sa, è bizzarro, si diverte nei confronti delle nostre aspirazioni: o ci aiuta a realizzarle o a distruggerle. Come si discute in campo filosofico, la predestinazione è vocabolo magico se mai ve ne furono.

Già al pronunciarlo si ha la sensazione d’avere oltrepassato lo stadio delle interrogazioni e delle perplessità; di avere finalmente trovato la chiave di ogni dilemma. Ma poi i dilemmi restano perché se il predestinato pensa di diventare ciò che deve diventare, fatalmente si abbandona al «destino» e finisce irretito nelle peggiori autocontraddizioni (giusto per dare alcune indicazioni culturali di riferimento, il tema del rapporto tra libero arbitrio e predestinazione è al centro del libro Harry Potter di J. K. Rowling). In campo sportivo sarebbe più corretto dire che non esiste la predestinazione ma la predisposizione, cioè il talento, l’estro, che è il sigillo del campione cui tutto riesce facile. Ma, anche qui, se il talento non viene coltivato, la nostra «promessa» finisce male. Come diceva il grande Pietro Mennea, «Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro».Insomma, per riassumere, «predestinato» «è un vocabolo che mi ripugna, dato il turpe uso che ne fanno tutti i consumatori di vocaboli» (cit.).

13 giugno 2022 (modifica il 13 giugno 2022 | 21:13)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-06-13 20:10:00,

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Tutte le volte che qualche sportivo viene gratificato della predestinazione, perde irrimediabilmente: in campo sportivo esiste piuttosto la predisposizione

I telecronisti dovrebbero usare con più cautela la parola «predestinato». Per tanti motivi, il primo dei quali è che non porta bene. Tutte le volte che qualche sportivo viene gratificato della predestinazione, perde irrimediabilmente: la macchina gli va in fumo (ogni riferimento è puramente…), il ginocchio cede, un male si accanisce prima di un torneo, cose del genere. Se sento ancora dire che Charles Leclerc è un predestinato, giuro che querelo per diffamazione. Predestinato si dice di una persona la cui sorte futura è stabilita; dunque c’è di mezzo il destino. E il destino, si sa, è bizzarro, si diverte nei confronti delle nostre aspirazioni: o ci aiuta a realizzarle o a distruggerle. Come si discute in campo filosofico, la predestinazione è vocabolo magico se mai ve ne furono.

Già al pronunciarlo si ha la sensazione d’avere oltrepassato lo stadio delle interrogazioni e delle perplessità; di avere finalmente trovato la chiave di ogni dilemma. Ma poi i dilemmi restano perché se il predestinato pensa di diventare ciò che deve diventare, fatalmente si abbandona al «destino» e finisce irretito nelle peggiori autocontraddizioni (giusto per dare alcune indicazioni culturali di riferimento, il tema del rapporto tra libero arbitrio e predestinazione è al centro del libro Harry Potter di J. K. Rowling). In campo sportivo sarebbe più corretto dire che non esiste la predestinazione ma la predisposizione, cioè il talento, l’estro, che è il sigillo del campione cui tutto riesce facile. Ma, anche qui, se il talento non viene coltivato, la nostra «promessa» finisce male. Come diceva il grande Pietro Mennea, «Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro».Insomma, per riassumere, «predestinato» «è un vocabolo che mi ripugna, dato il turpe uso che ne fanno tutti i consumatori di vocaboli» (cit.).

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Pietro Guerra

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