«The Gilded age», lo schema sociale di «Downton Abbey». Voto 8

di Maurizio Porro

La serie su Sky ha un’elettrica autonomia narrativa ed è un bellissimo modo per capire usi e costumi americani anche di oggi, pur partendo dal 1880.

C’era una volta in America. Una grande east side story sulla 61ma e dintorni nella New York di fine 800, il primo foglio di calendario è del 1882, attraversata da carrozze e cavalli, quando Henry James era sconsigliato alle giovinette. E’ l’età dorata, la «Gilded age» della bella, sontuosa serie «drama» di Julian Fellowes che ha ripetuto lo schema sociale all british di «Downton Abbey», tanto da pensare anche di allacciare le due famiglie, idea poi messa a riposo. Ma lo scrittore con molta abilità trasferisce usi, costumi, snobberie e razzismi di famiglia inglesi nell’America che cominciava ad accogliere immigrati, si stava aprendo agli agi, alle alterne fortune del capitalismo, giocava in borsa fra titani, si arricchiva con le linee ferroviarie (bisogna leggere i capolavori di Robertson, che dall’Ohio racconta in «Paradise falls» il Midwest). E dava con le sue ladies ricevimenti da mille e una notte. E la sera del 4 settembre 1882 i vip in carrozza ristorante scoprirono come accendere una lampadina elettrica e illuminare un intero palazzo davanti a una folla estasiata e plaudente al mago Edison. E’ la New York raccontata da Edith Wharton in L’età dell’innocenza, non per nulla tradotta da Scorsese in un film di eleganza viscontiana, quella dei nuovi e spietati ricchi che saranno materia dei romanzi di Theodore Dreiser e delle sue tragedie americane, insomma la prefazione al grande periodo prima della Grande Depressione del ‘29. Insomma il primo rinascimento americano, il Nuovo Mondo, a suon di dollari e di invenzioni, quando le carrozze non si fermavano per prendere in vettura i neri e le signore dell’alta società avevano stuoli di cuochi, camerieri e cameriere in livrea, privilegiando gli chef francese, già da allora più chic. Pur evidente il copia incolla con la serie inglese nel castello, perfino nel refrain musicale dei titoli di testa, «The gilded age», produzione HBO, ora su Sky e NOW, ha un’elettrica autonomia narrativa ed è un bellissimo modo per capire usi e costumi americani anche di oggi, pur partendo dal 1880. Si popola nel corso del tempo di personaggi che hanno il compito di intersecare vicendevolmente i loro destini, a volte spingendo sul melò degli amori impossibili o infranti (non mancano due ragazzi gay high society), altre volte facendo i conti degli affari ovviamente già corrotti (vedi un incidente ferroviario causato da materiali avariati e poco costosi: vi dice qualcosa?) e soprattutto sbirciando nelle manie di grandezza vip coi nuovi ricchi che da “parvenu” faticano a farsi accettare dagli aristocratici alla Guermantes: dovranno inevitabilmente capitolare di fronte al potere del Dio Dollaro.

La trama della serie in 9 puntate andata in onda su Sky e ora on demand, ruota intorno alla giovane Marian Brook, figlia orfana di un generale sudista che, finita la guerra civile, va a vivere a New York presso le due zie rigide e conformiste, una vedova, ostinata ereditiera con un figlio segretamente omosessuale (ma in lizza per matrimonio etero di interesse), molto arcigna, l’altra più disponibile al nuovo che avanza. Per una serie di equivoci e di colpi bassi del destino, la bionda ragazza arriva accompagnata da Peggy Scott, una altrettanto bella ragazza afroamericana che ha un passato difficile da rimuovere e una carriera letteraria giornalistica tutta da costruire. Davanti alla casa delle severe zie Ada e Agnes (potrebbero diventare star di Baby Jane), ci sta però il diavolo del Futuro, la ricchissima magione dei Russell, magnate delle ferrovie, del petrolio e di molto altro, con la moglie Bertha che è pronta a tutto pur di far carriera nell’alta società e due figli, fra cui il libertino Larry, non oscuri oggetti del desiderio sociale. E naturalmente tante altre storie, molte dame e damasse influenti, molti the, come nella Recherche proustiana, compresa la figura centrale borghese di un avvocato di provincia, Tom Raikes, che viene a far carriera nuovayorkese ma scomparirà nella seconda stagione, forse per cattiva condotta. Sono tutte vicende ben congegnate e mixate, ognuna porta una sua verità e-o una sua menzogna, con qualche coccolato eccentrico, un po’ alla Oscar Wilde, come Ward McAllister, che detta modi e mode. E spesso viviamo tra la servitù che ha i suoi luoghi deputati nel sottosuolo nella Metropolis e sviluppa una rete di desideri, relazioni, invidie che spesso si mescolano con quelli dei piani superiori, anche con cameriera pettegola per interesse e lotta di classe fra due maggiordomi, Bannister e Church, come accadeva pure presso la abbazia di Downton, dai Crawley. Impossibile raccontare fatti e fattacci, speranze e illusioni, serate nei palchi all’opera, thè benefici della Croce rossa, ma godibile osservare tutti gli svolgimenti delle avventure umane, storiche geografiche, di quest’America capace di esibizioni mondane da capogiro, tra stop and go in attesa della seconda stagione che potrà consolare Marian e ampliare storie finora considerate minori. Fellowes, il factotum, ha scelto un cast magnifico e location verosimili tra Newport, la zona degli Yonkers e il quartiere Troy di N.Y. Il resto è cinema.

5 ottobre 2022 (modifica il 5 ottobre 2022 | 14:16)

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