di Marco Bonarrigo
La Grande Boucle affronta oggi una frazione epica di 151 chilometri mentre sfida problemi di tutti i tipi: dal Covid che decima il gruppo alle proteste degli ambientalisti
MEGEVE C’è il Covid che volteggia come un avvoltoio sul gruppo e sulla maglia gialla: due corridori a casa, uno «positivo ma non contagioso» sotto stretta osservazione. C’è la corsa che viene bloccata per un quarto d’ora da un plotoncino di ambientalisti che si incatenano tra loro dopo aver lanciato fumogeni (color rosa Giro d’Italia, peraltro) sui fuggitivi. C’è il meteo che promette «38°/40° sicuri» sulle tappe durissime dei prossimi giorni. Per fortuna a tranquillizzare tutti ci pensa Tadej Pogacar che ieri ha salvato la maglia per 11” da un attacco coraggioso del tedesco Kamna. Il Marziano si esprime in una delle conferenze stampa più brevi della storia: 98”. «Mi fa piacere aver conservato la maglia — spiega lo sloveno — però se l’avessi persa sarei stato contento lo stesso. I manifestanti? Li ho trovati divertenti. Il Covid? Cerchiamo di resistere, ci proteggiamo, siamo ottimisti. Il caldo? Lo soffriamo tutti».
Succede di tutto e di più durante la decima tappa del Tour, scattata con la notizia del mesto ritiro di Luke Durbridge della Bike-Exchange ma soprattutto di George Bennett, gregario chiave di Pogacar in un team non proprio in salute. Soltanto trentasei ore prima i due — come tutti gli altri — erano risultati negativi ai controlli ufficiali dell’organizzazione. Che è successo, dopo? Il Tour (per non decimare il gruppo, dicono i maligni) utilizza solo tamponi rapidi mentre le squadre (appena l’atleta tossisce o lamenta un mal di gola) ricorrono al più accurato test molecolare.
Ma il bollettino sanitario non finisce qui: è risultato positivo anche Rafal Majka, spalla fidatissima di Pogacar in salita e nello spogliatoio. La Uae Emirates e il Tour hanno però deciso di tenerlo in gara in quanto — a dir loro — il polacco «non è contagioso» sulla base di un protocollo autarchico su cui circolano solo indiscrezioni. Majka non sta benissimo: se dovesse ritirarsi, Pogacar rimarrebbe con quattro gregari, tutti non proprio in forma. La Grande Boucle è corsa ai ripari chiudendo (un po’ tardi) i contatti tra atleti e giornalisti che peraltro avvenivano a distanza e con maschere indossate. Più saggio sarebbe stato impedire ad alcuni di loro (il giulivo colombiano Uran, ad esempio) bagni di folla senza alcuna protezione dopo l’arrivo.
In questo clima, il Tour affronta oggi una frazione epica di 151 chilometri lungo salite in cui affonda le sue radici. Per andare da Albertville a Serre Chevalier si scalano Télégraphe, Galibier (affrontato per la prima volta nel 1911) e nel finale il sontuoso Col du Granon. Le prime due sono un continuo di 35 chilometri separato da una breve discesa, con pendenze toste nel finale e soprattutto raggiungendo 2.642 metri sul livello del mare. Il Granon sale per 11 chilometri al 9% di media senza lasciare speranza e ossigeno (traguardo a quota 2.413) ai tanti che hanno fiato e gambe corte.
Considerato che domani ci sarà l’Alpe d’Huez dopo un secondo passaggio sul Galibier e dopo la Croix de Fer, in molti pensano a buona ragione che la classifica del Tour potrebbe essere già definitiva dopo dodici tappe.
Da oggi i gendarmi al seguito terranno gli occhi più aperti: ieri una decina di attivisti di Dernière Rénovation, gli ambientalisti che un mese fa stopparono la semifinale del Roland Garros, hanno preso di sorpresa l’apparato di sicurezza della corsa e costretto (per non dar loro visibilità) la tv a diffondere per un quarto d’ora immagini di vette alpine e dei rapaci che ci svolazzano sopra, con sottofondo di musica leggera.
13 luglio 2022 (modifica il 13 luglio 2022 | 07:02)
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, 2022-07-13 12:06:00, La Grande Boucle affronta oggi una frazione epica di 151 chilometri mentre sfida problemi di tutti i tipi: dal Covid che decima il gruppo alle proteste degli ambientalisti , Marco Bonarrigo