di Redazione Salute
Sette neoplasie su 10 sono scoperte e in modo «casuale»: i sintomi iniziali sono poco specifici e si arriva alla diagnosi con altre analisi. La sopravvivenza a 5 anni è pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne
Il 25% dei casi di colangiocarcinoma intraepatico è scoperto «per caso», cioè in maniera accidentale in seguito a esami eseguiti per altri motivi. Le difficoltà legate alla mancanza di sintomi specifici conducono troppo spesso a diagnosi in fase avanzata (oltre il 70%). Soltanto il 25% dei pazienti infatti è candidato alla chirurgia con intento curativo. Per le persone che presentano la malattia localmente avanzata o metastatica con la specifica alterazione di un gene (FGFR2) e già trattate con la chemioterapia è disponibile da pochi mesi in Italia una nuova terapia mirata che consente di ridurre le dimensioni del tumore, migliorando la sopravvivenza. I passi in avanti della ricerca devono però essere accompagnati da un cambiamento culturale nell’approccio alla malattia. Vanno sensibilizzati i medici non specialisti, perché sappiano riconoscere i primi segni della neoplasia, e va istituito un registro dei centri di riferimento, che possono garantire un approccio multidisciplinare con team dedicati.
Sintomi e fattori di rischio
Inoltre tutti i pazienti devono essere sottoposti alla profilazione genomica, per individuare eventuali alterazioni molecolari per la scelta della migliore terapia. «Il colangiocarcinoma è un tipo di tumore primitivo del fegato che ha origine dai colangiociti, le cellule che rivestono i dotti biliari, cioè i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino – spiega Lorenza Rimassa, Professore Associato di Oncologia Medica presso Humanitas University, IRCCS Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano) -. Il colangiocarcinoma è una patologia rara ma in costante crescita, ogni anno in Italia si stimano circa 5400 nuovi casi. Si distingue in base alla sede d’insorgenza in intraepatico, se si sviluppa all’interno del fegato, ed extraepatico, se nasce dalle vie biliari extraepatiche. Le forme intraepatiche si manifestano nei pazienti affetti da malattie delle vie biliari, come colangite sclerosante primitiva e calcoli biliari. Nei Paesi occidentali sono in aumento proprio queste forme, su cui incidono anche gli stili di vita scorretti. Tra i fattori di rischio, infatti, vi sono la sindrome metabolica, l’obesità, la steatosi e cirrosi epatica, l’epatopatia cronica, l’abuso di alcol e il fumo di sigaretta. Ma, nella maggior parte dei casi, è difficile identificare una specifica causa». La diagnosi è più semplice nelle forme extraepatiche, spesso caratterizzate da ittero (colorito giallo della cute e delle sclere, dovuto all’accumulo di bilirubina nel sangue) con urine scure, feci biancastre e prurito (per l’aumento dei livelli di sali biliari nel sangue).
Un quarto dei casi scoperto per caso
Il colangiocarcinoma intraepatico di solito è asintomatico per lungo tempo e i sintomi iniziali, ad esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, malessere, non sono specifici. «Ecco perché circa un quarto dei casi di carcinoma intraepatico è scoperto in modo accidentale, ad esempio a seguito di un’ecografia addominale eseguita per altri motivi – sottolinea Rimassa -. Possono trascorrere sei mesi dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi certa. Da qui la necessità di un cambiamento culturale con campagne di sensibilizzazione che coinvolgano tutti i medici non specialisti, a partire dai medici di famiglia, per migliorare il loro livello di conoscenza di una neoplasia rara ma molto aggressiva. Solo così potremo migliorare i tempi per arrivare alla diagnosi». La sopravvivenza a 5 anni è pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne, ma se la malattia è riscontrata in uno stadio precoce arriva fino al 50%. «La chirurgia, se effettuata sulla malattia in stadio iniziale, può avere esito risolutivo – dice Alfredo Guglielmi, Professore Ordinario di Chirurgia Generale ed Epatobiliare all’Università di Verona -. Purtroppo solo il 25% dei pazienti è candidato all’intervento, che è particolarmente difficile perché richiede l’utilizzo di tecniche avanzate, chirurghi con una formazione specifica, team multidisciplinari e centri di alta specializzazione».
Chirurgia e farmaci
«Con l’affinamento delle tecniche chirurgiche, questi interventi sono diventati sempre più sicuri e possono garantire buoni risultati a lungo termine – prosegue Guglielmi -. Si procede con la resezione epatica per il colangiocarcinoma che cresce all’interno del fegato e con la resezione del pancreas per il tumore che si sviluppa al di fuori dal fegato o dentro la testa del pancreas. Il trattamento chirurgico mira alla rimozione completa della neoplasia. In molti casi, dopo l’intervento è indicata una chemioterapia precauzionale». Nei pazienti che non possono essere operati o nei quali la malattia si è ripresentata, oggi il trattamento di prima scelta è rappresentato dalla chemioterapia, a breve associata all’immunoterapia, che non è risolutiva ma contribuisce a controllare l’evoluzione del tumore, anche se nella maggior parte dei pazienti la malattia si ripresenta.
Mutazioni genetiche
«Circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici presenta una o più mutazioni geniche, alcune trattabili con farmaci a bersaglio molecolare – afferma Giancarlo Pruneri, Ordinario di Anatomia Patologica all’Università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano -. L’analisi anatomo-patologica e la stadiazione del tumore devono sempre accompagnarsi alla ricerca di mutazioni, da eseguire tramite le nuove tecniche di sequenziamento genico. In particolare, il test NGS (Next Generation Sequencing) fornisce la visione più completa di un ampio numero di geni: è in grado di analizzare oltre 300 mutazioni geniche e può individuare le alterazioni molecolari da minime quantità di tessuto. L’utilizzo di pannelli di grandi dimensioni, rispetto al modello “single gene”, migliora la capacità di catturare le alterazioni molecolari utili per consentire l’accesso a terapie mirate». La fusione o il riarrangiamento del recettore 2 del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR2) è presente in circa il 10% dei colangiocarcinomi intraepatici. Lo scorso giugno l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha approvato la rimborsabilità di una nuova terapia mirata (pemigatinib), per il trattamento della malattia localmente avanzata o metastatica con fusioni o riarrangiamenti del gene FGFR2 che hanno manifestato progressione del tumore dopo almeno una linea precedente di terapia sistemica.
Trattamento di seconda linea
Si tratta di un importante cambiamento nel trattamento in seconda linea, finora privo di una terapia personalizzata. Pemigatinib ha dimostrato di offrire un importante beneficio in termini di risposte obiettive, cioè di riduzione delle dimensioni del tumore, nel 37% dei pazienti. Inoltre ha evidenziato una sopravvivenza mediana di quasi un anno e mezzo (17,5 mesi). «Un risultato molto importante, perché siamo di fronte a pazienti pretrattati – conclude Rimassa -. Per comprendere la portata del dato, basta pensare che nella prima linea di trattamento con la chemioterapia la sopravvivenza mediana è di circa un anno. Valutazione in un centro di riferimento, discussione del percorso di cura da parte di un team multidisciplinare e profilazione molecolare per la ricerca delle mutazioni sono i tre passaggi fondamentali per garantire la migliore assistenza ai pazienti con colangiocarcinoma. È importante che venga istituito quanto prima un registro dei centri di riferimento che trattano ogni anno un alto volume di casi, seguendo l’esempio delle Breast Unit per il carcinoma della mammella». L’approccio multidisciplinare e la profilazione genomica sono stati al centro del convegno nazionale «FIrST-in Colangiocarcinoma», che si è svolto a Napoli (i materiali del convegno sono disponibili sul sito www. colangiocarcinoma.net).
27 ottobre 2022 (modifica il 27 ottobre 2022 | 15:22)
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, 2022-10-27 13:36:00, Sette neoplasie su 10 sono scoperte e in modo «casuale»: i sintomi iniziali sono poco specifici e si arriva alla diagnosi con altre analisi. La sopravvivenza a 5 anni è pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne , Redazione Salute