Uber files: le pressioni su Macron e altri leader per espandersi in sei continenti

di Samuele Finetti

Un consorzio di 180 testate ha avuto accesso a decine di migliaia di documenti e chat interne del colosso del trasporto privato. Emergono i dietro le quinte dello sbarco in 40 Paesi: lobbying per ottenere leggi favorevoli, appoggio alle proteste violente e rapporti diretti con premier e capi di Stato bendisposti. Tra questi anche Emmanuel Macron e Joe Biden

«A volte abbiamo problemi perché, bhe, siamo dannatamente fuorilegge». A scrivere queste parole, in un messaggio datato 2014, fu Nairi Hourdajian. Nel 2014 era il capo della comunicazione internazionale di Uber, il colosso del trasporto privato su auto che oggi vale 43 miliardi di dollari e effettua 19 milioni di viaggi al giorno in tutto il mondo. E proprio a Uber si riferiva Hourdajian, in particolare alla condotta adottata dall’azienda californiana per espandere la propria presenza in 40 Paesi.

Il messaggio è solo uno degli 83.000 scambi — mail, chat Messenger e Whatsapp — visionati da un team di 180 giornalisti del Consorzio internazionale del giornalismo investigativo, di cui fanno parte testate come Guardian , Washington Post e Le Monde . A questi si aggiungono 124.000 documenti, risalenti al periodo che va dal 2013 al 2017, che hanno permesso di ricostruire i metodi con cui Uber avrebbe superato i confini statunitensi per approdare in sei continenti. Metodi fondati sulla violazione delle leggi nazionali, sullo sfruttamento della violenza e su una spregiudicata attività di lobbying su primi ministri, capi di Stato, imprenditori miliardari e magnati dei media.

I vertici della startup con base a San Francisco sapevano bene ciò che facevano: «Siamo diventati dei pirati», commentava uno dei manager. Del resto emergerebbe dalle carte come Travis Kalanick, uno dei cofondatori di Uber, fosse al corrente delle attività dietro le quinte della sua azienda e fosse il primo ad approvarle. Nel 2013, l’anno a cui risalgono i primi documenti analizzati, Uber era già un colosso internazionale, molto diffuso negli Stati Uniti e approdato due anni prima in Francia. Quello stesso anno, l’azienda ricevette un investimento da 250 milioni di dollari da Google e si espanse in India e in Sudafrica.

Quando Uber varcò i confini statunitensi dovette fare i conti con leggi nazionali più restrittive e con le organizzazioni di categoria che tutelano il lavoro dei tassisti. Per ritagliarsi una fetta di mercato in 40 Paesi, i vertici di Uber — oltre a offrire i propri servizi a prezzi più bassi — avrebbero messo pressione ai governi perché legiferassero in senso a loro favorevole. Le cifre investite a questo scopo sono considerevoli: nel solo 2016, Uber avrebbe estratto dal proprio portafoglio 90 milioni di dollari per attività di lobbying e relazioni pubbliche.

Spesso i lobbisti avrebbero scavalcato sindaci e autorità dei trasporti per rivolgersi direttamente a premier e presidenti. In altri casi, l’azienda avrebbe appoggiato economicamente figure pubbliche che la gradivano — sarebbe accaduto in Russia, Italia e Germania — garantendo loro un ritorno attraverso quote societarie dell’azienda. In altri casi ancora, avrebbe sborsato centinaia di migliaia di dollari per foraggiare professori universitari affinché pubblicassero ricerche che sostenessero l’influenza positiva di Uber sull’economia dei Paesi dove si affacciava.

Negli anni, Uber avrebbe avuto modo di confrontarsi faccia a faccia con alcuni degli uomini più potenti del Pianeta. Dai documenti sarebbe possibile ricostruire i rapporti diretti con l’allora ministro dell’Economia francese Emmanuel Macron, con il primo ministro irlandese Enda Kenny , con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e con il Cancelliere dello Scacchiere britannico George Osborne. Anche l’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz, al tempo sindaco di Amburgo, sarebbe stato avvicinato dagli emissari del colosso californiano: ma li avrebbe respinti in quanto favorevole all’introduzione di un salario minimo per gli autisti. «È un vero buffone», avrebbe commentato un manager di Uber.

Per uno di questi faccia a faccia, attorno al tavolo si sarebbero seduti lo stesso Kalanick e il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. L’occasione dell’incontro sarebbe stata il forum economico mondiale di Davos. L’attuale inquilino della Casa Bianca sarebbe arrivato in ritardo. Kalanick avrebbe scritto un messaggio a un collega: «Ho fatto in modo di fargli sapere che ogni minuto perso per un suo ritardo è un minuto in meno in cui sarò a sua disposizione». Il Guardian scrive che «dopo l’incontro, pare che Biden abbia modificato il proprio discorso per lodare gli amministratori di aziende come Uber». Anche con Macron le entrature sarebbero state privilegiate: l’allora ministro del governo guidato da Manuel Valls avrebbe dato garanzie all’azienda riguardo un «patto segreto» da lui stesso negoziato con i ministri che vi si opponevano.

Ma Kalanick si sarebbe spinto oltre. Nel 2016, mentre in Belgio, Spagna, Italia e Francia i tassisti scendevano in piazza per manifestare contro la sua azienda, il cofondatore avrebbe suggerito ai suoi sottoposti francesi di spingere gli autisti parigini di Uber ad organizzare una contro-protesta. Messo al corrente dei rischi che avrebbero corso, Kalanick avrebbe risposto: «Credo ne valga la pena. La violenza garantisce il successo».

In molti Paesi, i vertici locali di Uber sarebbero stati consapevoli dell’illegalità delle proprie pratiche. Ragion per cui avrebbero messo a punto un vero e proprio manuale per ostacolare le indagini penali. Se, ad esempio, si veniva a conoscenza di una prossima perquisizione negli uffici dell’azienda, i tecnici informatici ricevevano l’ordine di premere un metaforico «interruttore letale», ovvero di cancellare tutti i dati dei sistemi aziendali per evitare che finissero nelle mani degli inquirenti. Pratiche adottate, secondo i documenti, in Paesi come Italia, Spagna, Belgio, Svizzera e Olanda.

I risultati di queste vere e proprie campagne sono stati disomogenei. In alcuni Paesi, i vertici di Uber sono riusciti a forzare modifiche legislative; in altri, l’azienda è stata ostacolata dalle lobby dei tassisti o da politici che hanno rifiutato incontri e finanziamenti. Uber, che dal 2017 è guidata da Dara Khosrowshahi, ha risposto alla pubblicazione dei documenti con un comunicato in cui ammette «errori e passi falsi», ma chiede di «essere giudicata dal pubblico per ciò abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e per quello che faremo in futuro».

10 luglio 2022 (modifica il 10 luglio 2022 | 23:00)

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, 2022-07-10 23:54:00, Un consorzio di 180 testate ha avuto accesso a decine di migliaia di documenti e chat interne del colosso del trasporto privato. Emergono i dietro le quinte dello sbarco in 40 Paesi: lobbying per ottenere leggi favorevoli, appoggio alle proteste violente e rapporti diretti con premier e capi di Stato bendisposti. Tra questi anche Emmanuel Macron e Joe Biden, Samuele Finetti

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