di Antonio Scurati
Per noi spettatori di questa tragedia i caduti stanno diventando statistica. Il mero conteggio che disumanizza i morti: ecco una delle atrocità della guerra alla quale dobbiamo ribellarci
«Oltre 31.000 militari russi sono già morti in Ucraina. Dal 24 febbraio, la Russia paga ogni giorno quasi 300 vite dei suoi soldati per una guerra completamente insensata contro l’Ucraina. E comunque verrà il giorno in cui il numero delle perdite, anche per la Russia, supererà il limite consentito». Lo ha affermato Volodymyr Zelensky lo scorso 7 giugno via Telegram. E io oggi mi chiedo e vi chiedo: quando verrà il giorno in cui il numero delle vittime di questa guerra supererà per noi che la stiamo a guardare il limite consentito dalle nostre coscienze? Soprattutto: quel giorno verrà mai?
A prima vista si direbbe che quel giorno dovrebbe essere già venuto. Raggiunto e sorpassato il centesimo giorno di guerra il numero complessivo di morti e feriti, sebbene incerto e controverso, è gia enorme. Se fosse vero ciò che il presidente ucraino sostiene riguardo alle perdite russe — una cifra verosimilmente gonfiata dall’intento propagandistico — l’Armata russa avrebbe perso in cento giorni di guerra in Ucraina più soldati di quanti l’Armata Rossa ne perdette in sette anni di combattimento in Afghanistan. Se poi passiamo al conteggio dei caduti dalla parte degli aggrediti i numeri diventano addirittura abnormi. Le forze armate della resistenza ucraina ammettono ora che i caduti sono da 100 a 200 al giorno (il numero dei feriti assomma ad almeno il triplo), ma la cifra che dovrebbe precipitarci verso l’intollerabile non è ancora nella lista: l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani conferma la morte di oltre 4.300 vittime civili di cui almeno 274 bambini, aggiungendo che potrebbero essere migliaia in più se si tiene conto della ecatombe di Mariupol, definita «un grande buco nero». Al macabro conteggio andrebbero sommati decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, deportati, traumatizzati, milioni di profughi.
Qui, però, mi fermo perché credo che il problema sia proprio questo: il conteggio. Temo, infatti, che la nostra coscienza collettiva — la prima persona plurale si riferisce al «noi» di quelli che stanno a guardare — stia pericolosamente scivolando nel baratro della disumanizzazione delle vittime, uno dei tanti che l’atrocità della guerra rischia di aprire sotto i nostri piedi. Mi riferisco a quell’abisso morale al fondo del quale diventa vero il vecchio adagio cinico che recita: la perdita di una vita umana è una tragedia, un milione sono statistica. Temo proprio che noi spettatori più o meno sinceramente commossi dalle tragedie altrui siamo giunti al punto in cui le vittime della guerra che da tre mesi si ripete uguale a se stessa sui nostri comodi schermi siano diventati statistica. Ne è triste indizio il fatto che le vittime, e in particolare i civili, vittime per eccellenza, abbiano smesso di occupare la scena mediatica.
Se ricordate, in principio furono loro, le vittime civili, i protagonisti del racconto televisivo — nel senso di «visto da lontano» — del conflitto narrato come tragedia umana. Su di loro, sulle loro inermi vite spezzate, sui loro poveri oggetti insanguinati, sui loro corpi massacrati dalla malvagità, attirarono la nostra attenzione i coraggiosi inviati sul campo, luogotenenti della nostra inveterata inesperienza. Scortati dai racconti di chi era giunto fin laggiù, oltre i confini del mondo a noi conosciuto, scossi dalle immagini dello strazio, in principio ci emozionammo per quelle vite non nostre. Trepidazione per loro, palpitammo, perfino, di sdegno e d’orrore. L’emozione, però, lo si sa, dura il volgere di un istante. Solo i sentimenti sfidano il tempo, solo i ragionamenti, le idee radicate, i valori consolidati durano a lungo. Le emozioni no, quelle si consumano in fretta, al pari di ogni altro prodotto dell’intrattenimento di massa.
Non a caso, al centesimo giorno di guerra le vittime civili della madornale, epocale, fatidica carneficina ucraina hanno presto finito per occupare sulle home page dei nostri quotidiani online lo stesso posto accordato dallo spietato conteggio dei click al macabro ma isolato delitto di cronaca oppure al gossip sull’ennesimo idiota di successo. Il focus informativo sulla guerra in Ucraina si è spostato, intanto, dalla tragedia delle vittime civili ai costi crescenti degli idrocarburi, alla tipologia di armamenti inviati e da inviare, alla fin troppo presunta malattia del dittatore. «Che ci vuoi fare? Così va il mondo», commenterà qualcuno. La gente dopo un po’ si annoia, la gente cambia canale in fretta, per la gente alla fine l’unico conto che conti davvero è quello che tocca pagare.
Permettetemi di obiettare: così va questo mondo qui, polarizzato tra lo sciocchezzaio degli influencer e l’orrore inconcepibile di massacri mediatici. E non va affatto bene. In questo mondo, al tempo stesso torpido e sovraeccitato, il giorno in cui le tragedie della guerra supereranno il limite consentito dalla nostra coscienza non è ancora venuto per la semplice ragione che non verrà mai. In questo mondo qui, nel reame dischiuso da decenni di apprendistato alla nostra quotidiana irrealtà mediatica, la morte di un bambino dilaniato dalle bombe è già scaduta a dato statistico
10 giugno 2022 (modifica il 10 giugno 2022 | 23:39)
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, 2022-06-10 22:25:00, Per noi spettatori di questa tragedia i caduti stanno diventando statistica. Il mero conteggio che disumanizza i morti: ecco una delle atrocità della guerra alla quale dobbiamo ribellarci, Antonio Scurati