Untold: Operation Flagrant Foul, il docu-film Netflix sull’arbitro Nba che «vendeva» le partite

di Flavio Vanetti

Tim Donaghy «aggiustava» le gare che dirigeva per assecondare il giro di scommesse e (come stabilito dall’Fbi) anche la mafia: «Ero malato per il gioco»

La piattaforma di Netflix ha appena lanciato Untold: Operation Flagrant Foul, un docu-film che ci porta diritti e filati nel ricordo dello scandalo di Tim Donaghy, l’arbitro della Nba che scommetteva e soprattutto “aggiustava” le partite da lui dirette per assecondare il giro delle scommesse e pure — così ha stabilito l’Fbi — gli interessi della mafia.

È una storia che comincia agli albori del terzo millennio e che si sviluppa fino al 2007, quando Donaghy, arruolato e stipendiato (profumatamente) dalla Nba nel 1994, dopo un periodo nella lega minore Cba, si è dimesso. La notizia delle indagini dell’Fbi non era ancora uscita, ma l’arbitro corrotto aveva già chiaro il disastro al quale stava andando incontro, culminato nella galera. «Ero arrivato al punto di non ritorno e sono andato oltre — ammette in un passaggio —. Mi sono rovinato la vita senza che ce ne fosse bisogno perché guadagnavo bene (400mila dollari all’anno, ndr), avevo una macchina di lusso, una bella casa e soprattutto una famiglia».

Questa è dunque la narrazione, lunga 1 ora e 17 minuti — il tempo di una ricostruzione precisa, con tanti personaggi e tanti documenti — di un insensato viaggio all’inferno senza possibilità di ritorno. Per la cronaca, la Nba s’è rifiutata di dire la sua «perché Donaghy rimane un fellone, un criminale per nulla credibile e non ci va di aggiungere nulla a quanto a suo tempo avevamo detto». Per la cronaca l’allora commissioner David Stern, tremendamente scosso dallo scandalo, si era espresso così: «È la peggior cosa che ha vissuto la lega e io personalmente nel ruolo di suo amministratore».

L’illecito avveniva prima di tutto passando agli scommettitori informazioni sensibili rimediate nell’ambiente (ad esempio, l’infortunio di un giocatore), poi sistemando il punteggio con decisioni che potevano cambiare l’esito degli incontri più incerti ma addirittura pure di quelli meno equilibrati. Nelle fasi iniziali del docu-film si vede ad esempio come fosse stato preso di mira Allen Iverson, colpevole di aver trattato male un arbitro e dunque da punire. A quel punto si poteva far sapere a chi di dovere che la puntata andava fatta sulla formazione avversaria di «The Answer».

Coinvolgendo tutti, dagli allibratori di piccole città nei sobborghi di Filadelfia alle famigerate famiglie criminali e mafiose di New York, il programma di Donaghy era incentrato su tre co-cospiratori: oltre a lui, gli ex compagni di scuola superiore Tommy Martino e Jimmy “The Sheep” Battista. Nel docu-film di Netflix, tutti, per la prima volta, discutono sul loro coinvolgimento. Secondo l’inchiesta dell’Fbi, Tim Donaghy ha guadagnato 30 mila dollari dalle oltre 100 partite sulle quali ha scommesso (in 13 anni di carriera ne ha dirette 772). E nelle 47 in cui si è impegnato ad aggiustare il risultato, la percentuale di successo è stata del 78,7% (37 su 47). Quindi, un tipo affidabile, che non poteva più sganciarsi dal vortice in cui era caduto.

L’arbitro corrotto — che sulla vicenda ha scritto pure il libro Personal Foul — a suo tempo aveva provato a difendersi sostenendo che il marcio era nell’intera Nba, regista del malaffare e pronta a invitare i direttori di gara a manipolare le partite per incrementare i profitti. Ovviamente la lega ha smentito, ma il “fellone” potrebbe essere stato solo la punta di un iceberg più profondo. E da nascondere accuratamente. Tra l’altro sembra sia stato invitato a stare tranquillo e a tenere la bocca chiusa, soprattutto perché non si voleva che si scoperchiasse il coperchio dei rapporti con “Cosa Nostra”.

Una volta scoppiato lo scandalo, la moglie ha chiesto il divorzio e l’8 luglio 2008 Tim Donaghy, riconosciuto colpevole di entrambi i capi per i quali era stato accusato, è stato condannato a 15 mesi di prigione. Dopo 11 avrebbe dovuto scontare gli ultimi 4 in una struttura di reinserimento, ma fu rispedito in gattabuia per aver violato i termini del rilascio. A pena scontata ha lavorato nel mondo del wrestling, ma nulla potrà mai cancellare quello che ha fatto. «Non ero affamato di soldi, non ne avevo bisogno. La mia malattia era la dipendenza dal gioco. Non ho saputo arrestarla e in questo modo ho ferito anche il basket, lo sport che amo». Dettaglio non trascurabile: certi giocatori erano esentati dai «trattamenti speciali». Ad esempio, una volta che Michael Jordan fu sanzionato in modo discutibile, a Donaghy arrivò l’avviso di non riprovarci. Motivazione ufficiale? La gente viene alle partite non per vedere le stelle uscire per falli ma per applaudire le loro prodezze. A ben vedere pure questo è un risvolto torbido di un’autentica storiaccia.

1 settembre 2022 (modifica il 1 settembre 2022 | 19:50)

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, 2022-09-01 20:37:00, Tim Donaghy «aggiustava» le gare che dirigeva per assecondare il giro di scommesse e (come stabilito dall’Fbi) anche la mafia: «Ero malato per il gioco», Flavio Vanetti

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