«Welcome to Britaly»,  la copertina dell’Economist che sa di vecchio: ecco i dati che premiano l’Italia

L’Economist è quella testata verso la quale ci rivolgiamo ogni giorno per affacciarci dietro la superficie delle cose. Poi però arriva una copertina dal titolo «Welcome to Britaly», con una Liz Truss vestita da Britannia che tiene come una lancia una forchetta dagli spaghetti immancabilmente arrotolati attorno.

Il messaggio non è nuovo. Circola da giorni in quella parte della stampa inglese, meno seria, che negli anni si è resa corriva corresponsabile in quella catastrofe economica, culturale e civile che è la Brexit.

Il messaggio è che i guai della premier dimissionaria di Londra avvicinerebbero la Gran Bretagna – sorpresa – all’Italia. L’ambasciatore italiano a Londra Inigo Lambertini l’ha definita una copertina «purtroppo ispirata ai piu’ vecchi stereotipi».

The comparison to Italy is inescapable. Britain is hobbled by political instability, low growth and subordination to the bond markets. Welcome to Britaly https://t.co/4uoOyvV5zx pic.twitter.com/48AYCr0yKW

— The Economist (@TheEconomist) October 19, 2022

In effetti però ci si può divertire con i paragoni.
C’è l’instabilità politica (ma in Italia i premier durano più di 45 giorni e i ministri economici sono un perno del sistema e garanti di stabilità, non figurine licenziabili dopo 38 giorni).
C’è la fragilità dei mercati e dei titoli di Stato (ma in Italia non si collega agli stessi disastri dei fondi pensione britannici).
E c’è la bassa crescita (ma l’Italia è il settimo esportatore mondiale e mantiene le sue quote di mercato, mentre la Gran Bretagna è il quattordicesimo e ha visto le sue vendite nel suo primo mercato — l’Unione europea — crollare del 24% in termini nominali dal 2017, malgrado una caduta della sterlina del 17% sull’euro).

Ci si può anche divertire, come nei paragoni fra qualunque coppia di Paesi, nel gioco delle differenze.
L’Italia ha una moneta di riserva internazionale, mentre la Gran Bretagna l’aveva. Adesso gli investitori in tutto il mondo sono molto più riluttanti a accettare e detenere sterline senza limiti, perché la valuta di Londra non è più così essenziale nelle riserve dei grandi gestori internazionali. L’export britannico è di poco superiore a quello di Singapore o del Vietnam, il Regno Unito è in profondo rosso negli scambi con il resto del mondo, dunque quella di Londra non è più una moneta con lo stesso status del dollaro o dell’euro, da detenere per regolare contratti o gestire risparmi nel resto del mondo. Ne consegue che il potere della Bank of England di rimediare ai pasticci della politica stampando moneta è ormai più limitato rispetto quello della Federal Reserve o della Banca centrale europea (alla quale l’Italia partecipa).
Qui si nota un’altra differenza macroeconomica. Malgrado lo choc sui prezzi dell’energia, l’Italia mantiene ancora un lieve attivo nella bilancia delle partite correnti con il resto del mondo (cioè nel saldo degli scambi di beni, servizi, interessi e dividendi finanziari). La Gran Bretagna invece è nel rosso più profondo, al primo trimestre di quest’anno, da quando inizia la serie nel 1955. Ciò si aggiunge a un deficit pubblico anch’esso superiore a quello italiano e anch’esso allarmante. Una conseguenza è che la posizione finanziaria netta dell’Italia sul resto del mondo è in lieve attivo: il Paese è creditore netto verso il resto del mondo. La Gran Bretagna è un debitore netto per quasi mille miliardi di dollari, anche qui non lontano dai massimi storici. Non stupisce dunque tutta questa fragilità di mercato.

Molto dello stato del Regno Unito di oggi — la fragilità politica e finanziaria, il tenore febbrile del dibattito pubblico — sarebbe impensabile senza il 2016. Il referendum sulla Brexit ha cambiato tutto. Il veleno delle menzogne con cui una coalizione di ultra-nazionalisti, nostalgici e opportunisti alla Boris Johnson vinsero quella scommessa è entrato nei tessuti del Regno. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’Italia e con nessun altro Paese. Riguarda solo un sistema di istituzioni, partiti e media che non ha saputo arginare questo disastro politico-istituzionale.

La stagione del populismo ha investito quasi tutti i grandi Paesi dell’Occidente, ma in nessuno ha lasciato tanti danni come nel Regno Unito.

Ora quella vicenda intessuta di menzogne, sovranismo, fantasie di grandezza e dell’illusione di non aver bisogno degli altri sta arrivando in fondo alla sua strada. E in fondo c’è un profondo smarrimento culturale e civile di un Paese che in molti in Europa continuiamo ad amare e ammirare.

L’Economist renderebbe un servizio a tutti noi se ci aiutasse a fare luce sul filo rosso che porta dall’euroscetticismo alla Brexit, e dalla Brexit allo stato attuale delle cose. Sarebbe un servizio reso alla verità in un dibattito inglese così straboccante di menzogne.

Le forchette, gli spaghetti arrotolati e altri cliché appartengono a un’altra epoca. Sanno di vecchio in un mondo nuovo che pochi in Gran Bretagna sembrano voler guardare in faccia.

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, 2022-10-20 16:25:00, L’ironia del settimanale e i dati: i fondi pensione britannici sono un disastro. L’Italia è il settimo esportatore mondiale, il Regno Unito è il 14esimo e le sue vendite verso la Ue stanno crollando, Federico Fubini

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