Yeman Crippa: «Sono cresciuto per strada, i miei genitori italiani mi hanno dato una vita normale. E l’atletica»

di Gaia Piccardi, inviata a Monaco di Baviera

L’azzurro, campione europeo dei 10mila: «In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, da orfano in orfanotrofio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo»

La medaglia d’oro nei 10 mila all’Europeo al collo. La tessera del club riservato ai grandi mezzofondisti italiani della storia dell’atletica (Cova, Mei, Antibo) in tasca. Un piatto di pomodori e mozzarella, più il lusso di una birra («Fuori gara me ne posso concedere due alla settimana, non sempre rispetto la regola ma la media è quella»). La fidanzata Sofia, con cui convive in collina a Trento, quartiere Cognola, al fianco. Nella notte del trionfo, a Monaco, Yeman Crippa è l’uomo più felice del mondo.

Yeman, la sua storia di orfano etiope adottato bambino da una coppia italiana insieme ai cinque fratelli e ai cugini per vivere sulle montagne del trentino è tutto fuorché banale. In che modo il suo passato corre in pista con lei?
«Ho avuto una storia particolare, è vero. Mi sento tanto fortunato di essere potuto venire in Italia e di aver scoperto che c’è un’altra vita. Mi è stato dato un futuro diverso, migliore. E’ questo il motivo per cui questo oro che ho aspettato a lungo lo dedico a me stesso».

Una finale europea dominata.
«Ho impostato la gara sui cambi di ritmo: quando non sono in condizione li pago nel rettilineo finale. Ma qui a Monaco stavo benissimo, avevo rinunciato al Mondiale in Oregon per l’Europeo, una scelta non facile, però alla fine azzeccata. Avevo capito con il bronzo nei 5 mila che stavo bene, che riuscivo a fare cose belle, quindi nei 10 mila sono riuscito a gestirmi. Ho visto il norvegese andarsene, mi devo tirare le orecchie per aver guardato troppo il francese, ho rischiato di perdere l’attimo, ma le gambe c’erano: mi sono gasato, e per recuperare è bastato il minimo sforzo».

E poi ha mostrato alla telecamera i muscoli, come Jacobs.
«Ma io ne ho molti meno! Però nel gesto di mostrare i muscoli c’è potenza, volevo far vedere la mia e tirare fuori tutta l’emozione che avevo dentro. Subito dopo il traguardo ho fatto anche il gesto dell’esultanza di CR7 dopo un gol…».

Però lei è interista.
«Mio papà Roberto mi ha obbligato da piccolo a tifare Inter: in Trentino andavamo al bar a vedere le partite e quando l’Inter perdeva mi mettevo a piangere… che stupido! Sono un tifoso di calcio anche perché l’ho giocato: centrocampista centrale, mi hanno provato anche terzino ma correvo dappertutto a recuperare palloni. Perdevamo 11-0 e correvo solo io! Ho amato Stankovic e Eto’o: nelle prime garette di corsa, se vincevo, dopo il traguardo facevo la “sparata” come Dejan».

Più divertente correre e vincere da solo, anziché correre per altre dieci persone e perdere. Questo oro tanto atteso, alla fine, ha avuto il sapore dolce che si immaginava?
«E’ più bello di come me lo ero immaginato: sapevo dall’inizio che, se il norvegese fosse andato via, sarei andato a riprenderlo. Ma finché non raggiungerò i migliori al mondo non sarò soddisfatto. Ora mi guardo bene questa medaglia, poi con il mio allenatore Massimo Pegoretti cercheremo di capire come raggiungere i rivali che ho davanti. Ho vinto in Europa, ma il Mondiale e l’Olimpiade sono un’altra cosa».

In un mondo che viaggia a trecento all’ora, per come è fatto lei, Yeman, riuscirà ad assaporare questa vittoria o pensa già alla prossima gara?
«Non sempre riesco a godermi le cose belle: nella vita me ne sono successe di brutte ma anche di bellissime. Non mi sento mai il migliore, non mi sento mai appagato».

Quando incide la sua storia in salita in questa sensazione di insoddisfazione, secondo lei?
«Mi sento fortunato ad essere stato adottato: questa, in fondo, è la mia seconda vita. In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, da orfano in orfanotrofio, non avevo idea di come sarebbe andata a finire. I miei genitori adottivi mi hanno dato una possibilità: una vita normale, un tetto, la scuola, l’atletica. Sono arrivato in Italia da Dessiè, 400 km da Addis Abeba, un piccolo villaggio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo. I miei compagni avevano tutto, abiti di marca e giocattoli di cartoleria. Io non ho mai avuto né giochi né vestiti comprati, mai avuto cose materiali. Io e i miei fratelli ci siamo sempre dovuti meritare tutto, ma va bene così. Ho imparato a soffrire, a sacrificarmi, a lavorare con determinazione per un risultato. Il mezzofondo, in confronto, mi è parso quasi facile».

Ricorda i suoi genitori biologici, scomparsi quando lei aveva 5 anni?
«Ho qualche ricordo. Brutto. Se ne sono andati tutti e due per una malattia infettiva. Ma i bambini in Africa sono per forza molto avanti: crescono per strada, fanno e capiscono cose che un bambino italiano non farebbe e non capirebbe mai. Chi lascia un bambino per strada, in Italia? Nessuno. Ma in Etiopia è la normalità. Io sono cresciuto così».

E’ mai tornato a Dessiè?
«Più volte. La prima ero stracarico di emozioni. Non vedevo l’ora di tornare dove giocavo a nascondino con gli amici, di rivedere casa, il luogo dove sono venuto al mondo. Una volta lì, però, non sentivo più la scintilla. Il posto mi sembrava minuscolo, emotivamente vuoto. Le emozioni sono svanite. Le due sorelle che per prime mi hanno raggiunto in Italia l’hanno vissuta come me, i miei fratelli invece no: al ritorno in Etiopia si sono emozionati».

Ha nominato Jacobs. Cosa ha pensato quando ha visto Jacobs e Tamberi conquistare l’oro olimpico nello sprint e nell’alto, l’anno scorso a Tokyo, a dieci minuti l’uno dall’altro?
«In Giappone all’Olimpiade c’ero anch’io, ma a marzo ero stato fermo un mese per infortunio e ai Giochi, benché pensassi di essere bene allenato, ho scoperto di non essere in condizione. A Tokyo non ero io. Il mio obiettivo è diventare come Marcell e Gimbo, ci accomuna la voglia di fare vedere al mondo chi siamo. Le loro medaglie olimpiche hanno fatto scattare a tutti gli azzurri la voglia di pensare in grande. E’ stato proprio un salto mentale: è questo che ha cambiato l’Italia dell’atletica. All’Europeo di Berlino 2018 avevamo vinto 6 medaglie, qui 11, di cui tre ori».

La Torre, il d.t. della Nazionale, vorrebbe farle fare la transizione dal mezzofondo in pista alla maratona in strada. E’ pronto?
«Prontissimo, anche se so già che la pista mi mancherà… Io vorrei sperimentarmi su una maratona già la primavera prossima, ma le cose bisogna farle bene, vanno programmate e organizzate. La strada mi piace, le distanze lunghe anche: voglio proprio sbatterci il muso».

E quando si ritroverà fianco a fianco dei fortissimi africani, che pensieri le frulleranno per la testa?
«Già li incontro nelle call room delle mie gare internazionali, e mi chiedo: ma cos’ha lui più di me? In quali modi si sarà allenato meglio di me? Il keniano Kipkoge, per dire, è un’icona: non dubita mai di sé, ogni maratona la vince. Con gli africani ci parlo un po’ in amarico e un po’ in inglese. Però, Kipkoge a parte, loro spesso vanno allo sbaraglio, senza ragionare: si buttano in gara e come va, va. La loro forza è l’incoscienza. Mi hanno invitato tante volte ad allenarmi in Kenya. Prima o poi, magari, ci vado».

Intanto ci è andato in vacanza.
«L’anno scorso, con Sofia. Safari e poi mare». (interviene Sofia: «Oddio, mare… Io nuotavo, a lui ho allacciato il salvagente!»).

Tra poco più di un mese l’Italia sarà chiamata a votare, Yeman. Ha le idee chiare? «Assolutamente no! Mi devo studiare bene la situazione per capire da che parte stare».

Programmi imminenti?
«Una gara sui 3 km a Feltre, poi i 5 mila al meeting di Rovereto, dove proverò a scendere sotto i 13 minuti. Poi, finalmente, vacanza con Sofia. Formentera, Maiorca o Minorca: non abbiamo ancora deciso. Oppure Africa, in Madagascar. In ogni caso, relax. In vacanza non corro».

22 agosto 2022 (modifica il 22 agosto 2022 | 13:03)

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, 2022-08-22 13:28:00, L’azzurro, campione europeo dei 10mila: «In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, da orfano in orfanotrofio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo», Gaia Piccardi, inviata a Monaco di Baviera

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