di Simon Shuster
Il racconto del giornalista di Time che ha trascorso due settimane nel palazzo del presidente: le ossessioni notturne, la paura di addormentarsi, il tentativo degli invasori di ucciderlo
KIEV — Il momento più difficile è la notte, quando è steso sulla brandina, con il lamento delle sirene nelle orecchie e il telefono che vibra ancora accanto a lui. Nel buio, il bagliore dello schermo trasforma il suo viso in una maschera spettrale, mentre lo sguardo scorre sui messaggi che non ha avuto modo di leggere durante il giorno. Alcuni sono di sua moglie e dei figli, molti provengono dai suoi consiglieri, qualcuno dalle truppe, che si ritrovano assediate dal nemico nei loro bunker e gli chiedono ininterrottamente di inviare altre munizioni e armamenti per spezzare l’accerchiamento dei russi.
Dentro il suo bunker, il presidente ha preso l’abitudine di fissare la sua agenda giornaliera anche al termine della giornata. Resta sveglio, a chiedersi se ha dimenticato qualche particolare, o qualcuno. «È inutile», mi dice Volodymyr Zelensky nel complesso presidenziale di Kiev, davanti all’ufficio dove talvolta si ferma a dormire. «È sempre la stessa agenda. Vedo che per oggi ho finito. Ma la guardo molte volte e ho l’impressione che ci sia qualcosa che non va». Non è l’ansia che gli impedisce di chiudere gli occhi. «È la mia coscienza che mi tormenta».
Lo stesso pensiero continua ad assillarlo: «Mi sono addormentato, e adesso? C’è qualcosa che sta accadendo proprio in questo momento». Da qualche parte in Ucraina, le bombe piovono ancora. I civili sono intrappolati nelle cantine o sotto le macerie. I russi continuano a perpetrare crimini di guerra, stupri e torture. I missili russi hanno spianato intere città. Mariupol è assediata, insieme ai suoi ultimi difensori. Una battaglia campale è iniziata a est del Paese . Nel mezzo di tutto questo, Zelensky, il comico diventato presidente, sente ancora il bisogno di chiamare il mondo a raccolta intorno a sé, per convincere i capi di governo che il suo Paese ha bisogno del loro aiuto, adesso, e a ogni costo.
Al di fuori dell’Ucraina, mi dice Zelensky, «la gente guarda la guerra su Instagram, sulle reti social. E quando si stufano, passano ad altro». Fa parte della natura umana. Gli orrori ci costringono a chiudere gli occhi. «C’è troppo sangue», mi spiega. «Troppe emozioni». Zelensky sa benissimo che l’attenzione internazionale comincia ad affievolirsi, e questo lo spaventa tanto quanto i bombardamenti russi. Tutte le notti, quando studia l’agenda, la sua lista di impegni non riguarda tanto la guerra, quanto il modo in cui essa viene percepita. La sua missione è quella di far provare che cosa significa questa guerra al mondo libero, al pari dell’Ucraina che la sta vivendo: è questione di sopravvivenza.
E sembra riuscirci. Gli Stati Uniti e l’Europa intera sono accorsi in suo aiuto, fornendo al suo Paese un quantitativo di armi senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Migliaia di giornalisti sono venuti a Kiev, a chiedere interviste con il presidente.
La mia non voleva essere semplicemente un’occasione per fare domande a Zelensky, quanto piuttosto per vedere la guerra proprio come la sta vivendo lui, assieme ai suoi collaboratori. Nel corso di due settimane, in aprile, mi hanno concesso di accedere al complesso presidenziale sulla via Bakova, per osservare la loro quotidianità e sostare negli uffici dove ormai tanti di loro vivono e lavorano. Zelensky e il suo staff hanno conferito a questi luoghi un’aria di normalità. Ci si scambia battute, si beve il caffè, si aspetta l’inizio o la fine delle riunioni. Solo i soldati della nostra immancabile scorta incarnano la guerra, mentre ci accompagnano da un luogo all’altro, illuminando con le torce i corridoi bui, passando davanti alle stanze dove si dorme sul pavimento.
È un’esperienza che illumina il modo in cui Zelensky è cambiato da quel nostro primo incontro di tre anni fa, dietro le quinte del suo spettacolo a Kiev, quando era ancora un comico che si era candidato alla carica presidenziale. Il suo senso dell’umorismo è rimasto inalterato. «È un modo per sopravvivere», mi spiega. Ma due mesi di guerra l’hanno indurito, l’hanno reso pronto all’ira e avvezzo al rischio. I soldati russi sono stati a un soffio dal piombargli addosso, a lui e alla sua famiglia, nelle prime ore di guerra. Dal suo ufficio si sono sentiti i colpi d’arma da fuoco. Lo tormentano le immagini dei civili massacrati. Così pure gli appelli quotidiani che gli lanciano i suoi soldati, a centinaia ancora intrappolati nei tunnel sotterranei, e ormai a corto di cibo, acqua e munizioni.
Questo resoconto sulla guerra di Zelensky è basato sui colloqui intrattenuti con lui e una decina dei suoi collaboratori. Per la maggior parte, costoro si sono ritrovati sprofondati in questa esperienza senza alcuna preparazione. Molti di loro, come lo stesso Zelensky, vengono dal mondo del teatro e dell’intrattenimento. Altri erano famosi in Ucraina come blogger e giornalisti, prima dell’invasione russa.
Il giorno del nostro ultimo incontro — il 55° dall’aggressione russa — Zelensky ha annunciato l’inizio dei combattimenti che potrebbero mettere fine alla guerra. Le truppe russe si sono riposizionate dopo aver subito pesanti perdite attorno alla capitale, e hanno ingaggiato un nuovo assalto nell’est del Paese. Laggiù, dice Zelensky, gli eserciti da una parte o dall’altra finiranno annientati. «Sarà una battaglia su larga scala, lo scontro più massiccio mai visto sul nostro territorio», mi dice Zelensky il 19 aprile. «Se riusciremo a resistere, sarà decisivo per noi. Il punto di svolta».
Durante le prime settimane dell’invasione, quando l’artiglieria russa era a poca distanza da Kiev, Zelensky non aspettava il sorgere del sole per chiamare il suo generale a rapporto. La prima telefonata era intorno alle 5 del mattino, prima ancora che la luce del giorno cominciasse a filtrare attraverso i sacchetti di sabbia accatastati davanti alle finestre del palazzo presidenziale. In seguito, l’hanno spostata di un paio d’ore, per consentire a Zelensky di fare colazione — sempre a base di uova — e di raggiungere gli uffici presidenziali.
Questi locali sono cambiati ben poco dall’inizio del conflitto. È un guscio ovattato di dorature e mobilio barocco che Zelensky e i suoi trovano opprimente. («Almeno se ci bombardano ci saremo liberati di questi arredi», ha scherzato uno di loro.) Ma le strade attorno ai palazzi del governo sono diventate un labirinto di posti di blocco e barricate. Le auto dei civili non possono avvicinarsi e i soldati chiedono ai pedoni la parola d’ordine, che cambia di giorno in giorno, spesso frasi senza senso, che risultano difficili da pronunciare per un russo.
Al di là dei posti di blocco si trova il distretto del governo, conosciuto come il Triangolo, che le forze armate russe hanno tentato di espugnare all’inizio dell’invasione. Quando ho accennato a quelle prime ore, Zelensky mi ha avvertito che i suoi ricordi sono molto frammentari, un insieme confuso di immagini e rumori. Il momento più drammatico si è verificato all’alba del 24 febbraio, quando si è recato con la moglie Olena dai figli per avvertirli che erano iniziati i bombardamenti e per prepararli a lasciare la casa. La figlia ha 17 anni e il figlio 9, entrambi grandi abbastanza per capire il pericolo. «Li abbiamo svegliati», racconta Zelensky, abbassando lo sguardo. «Era il finimondo. Si sentivano esplosioni da quella parte».
Si è capito ben presto che gli uffici presidenziali non erano il posto più sicuro. I militari hanno informato Zelensky che i commando russi si erano paracadutati in città per ucciderlo o catturarlo insieme alla sua famiglia. «Prima di quella notte, erano cose che si vedevano solo al cinema», dice Andriy Yermak, il capo di gabinetto.
Mentre i soldati ucraini respingevano i russi nelle strade, le guardie presidenziali hanno isolato il complesso con tutto quello che sono riuscite a trovare. Un cancello dell’entrata sul retro è stato bloccato con le barricate della polizia e tavole di compensato, più un cumulo di rottami che un fortilizio.
Amici e sostenitori si sono precipitati al fianco di Zelensky, talvolta in violazione dei protocolli di sicurezza. Alcuni di loro hanno portato in salvo le famiglie nel palazzo presidenziale. In caso di morte del presidente, la catena di comando in Ucraina prevede la presa in carico del governo da parte del presidente del parlamento. Ma Ruslan Stefanchuk, che detiene quell’incarico, è arrivato dritto in via Bankova la mattina dell’invasione anziché cercare rifugio altrove.
Stefanchuk è stato tra i primi a vedere il presidente nel suo ufficio quella mattina. «Non ho visto paura sul suo viso», mi dice, «ma solo una domanda: com’è potuto accadere?». Per mesi Zelensky aveva sdrammatizzato gli avvertimenti di Washington, che la Russia stava per lanciare l’invasione. In quel momento però ha capito che era scoppiata una guerra totale, sebbene non riuscisse ancora ad afferrarne appieno il significato. «Queste parole possono sembrare esagerate», dice Stefanchuk, «ma abbiamo avvertito nettamente il crollo dell’ordine mondiale». Subito dopo il presidente del parlamento si è precipitato nell’aula parlamentare per presiedere al voto che imponeva la legge marziale in tutto il Paese. Zelensky ha firmato il decreto quello stesso pomeriggio.
Al calar della notte quella prima sera, le sparatorie si sono fatte sentire nel quartiere governativo. Le guardie all’interno dei palazzi hanno spento tutte le luci e distribuito i giubbotti antiproiettili e i fucili d’assalto a Zelensky e a una decina dei suoi uomini. Ma solo pochi di loro sono in grado di maneggiare le armi. Uno di questi è Oleksiy Arestovych, un veterano dei servizi segreti militari ucraini. «Era un manicomio», mi dice. «Armi automatiche consegnate a tutti». I russi, aggiunge, hanno fatto due tentativi di assaltare il palazzo. Più tardi, Zelensky mi ha rivelato che la moglie e i figli erano accanto a lui in quel momento.
Subito dopo sono arrivate le offerte, da parte delle forze americane e britanniche, di evacuare il presidente e i suoi uomini. L’idea era quella di aiutarli a stabilire un governo in esilio, con ogni probabilità nelle regioni orientali della Polonia, da dove avrebbero potuto continuare a dirigere le operazioni di guerra. Tra gli uomini di Zelensky, nessuno ricorda che il presidente abbia mai preso sul serio quella proposta. Su una linea telefonica sicura, stabilita con gli americani, ha risposto con quella frase che ha fatto il giro del mondo: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio».
«Ha avuto coraggio», commenta un ufficiale americano. «Ma ha rischiato tantissimo». Le guardie del corpo di Zelensky concordano. Lo hanno esortato a partire immediatamente. I palazzi del governo sorgono in un quartiere densamente popolato, circondato da abitazioni private che avrebbero potuto servire da covo per i cecchini nemici. Alcune case sono così vicine che sarebbe possibile colpire una finestra con una granata scagliata dall’altro lato della strada. «Il palazzo è esposto», dice Arestovych. «Non avevamo nemmeno i blocchi di cemento per sbarrare la strada».
Fuori dalla capitale, un bunker sicuro attendeva il presidente, equipaggiato per sostenere un assedio prolungato. Ma Zelensky si è rifiutato di andarci. Invece, la seconda notte dell’invasione, mentre le forze ucraine respingevano i russi nelle strade accanto al palazzo, il presidente ha deciso di uscire all’aperto, in cortile, e filmare un messaggio sul suo telefonino. «Siamo tutti qui», ha detto Zelensky, dopo aver fatto l’appello degli ufficiali al suo fianco. Indossavano tutti le magliette e le giacche verdi dell’esercito, che sarebbero diventate le loro uniformi in tempo di guerra. «Siamo tutti qui a difendere la nostra indipendenza, a difendere il nostro Paese».
È allora che Zelensky ha capito qual era il suo ruolo in questa guerra. Gli occhi della sua gente e di tutto il mondo erano puntati su di lui. «Lo sai che ti stanno guardando», dice. «Sei diventato un simbolo. E devi comportarti come un capo di Stato».
Quando ha diffuso un clip di 40 secondi su Instagram il 25 febbraio, il senso di unità che ha proiettato era tuttavia piuttosto ambiguo. Zelensky era rimasto allarmato da quanti ufficiali e militari avevano preferito filarsela. Ma non ha reagito con minacce e ultimatum. Ha concesso loro di prendersi il tempo necessario per evacuare le famiglie. Poi ha chiesto loro di tornare al loro posto. E quasi tutti l’hanno fatto.
Altri si sono offerti di trasferirsi nel bunker del palazzo presidenziale. Serhiy Leshchenko, celebre giornalista e parlamentare, è arrivato qualche giorno dopo l’invasione per aiutare lo staff a combattere la disinformazione russa. Gli hanno fatto firmare un accordo di riservatezza, che gli impedisce di divulgare particolari sull’ubicazione e conformazione del bunker. Tutti coloro che vi risiedono hanno sottoscritto lo stesso documento. Non possono neppure parlare del cibo che mangiano là sotto.
L’isolamento forzato spesso ha costretto Zelensky e i suoi a vivere la guerra dagli schermi, un po’ come accade a tutti noi. Gli spezzoni delle battaglie e degli attacchi missilistici finivano sui social ancor prima che i militari avessero il tempo di informare Zelensky. Il presidente e i suoi uomini si raccoglievano attorno a un telefono o davanti allo schermo di un computer nel bunker, imprecando contro le immagini delle devastazioni o esultando quando un drone centrava un blindato russo.
«Questo qui è uno dei pezzi preferiti», mi dice Leshchenko, mostrandomi il filmato dell’abbattimento di un elicottero russo. I meme e i video virali erano spesso fonte di divertimento, come pure le ballate di guerra che gli ucraini scrivevano, registravano e postavano online. Eccone una:
Guardate come la nostra gente, come tutta l’Ucraina ha unito il mondo contro i russi. Ben presto tutti i russi se ne andranno e ci sarà la pace nel mondo.
Di lì a poco, però, Zelensky ha voluto recarsi di persona sui luoghi dei combattimenti. Ai primi di marzo, mentre i russi bombardavano ancora Kiev e tentavano di circondare la capitale, il presidente è uscito in segreto dal palazzo presidenziale, accompagnato da un paio di amici e da una piccola scorta. «Abbiamo preso la decisione di andare, su due piedi», dice Yermak, il capo di gabinetto. Non avevano telecamere. Alcuni dei più stretti collaboratori di Zelensky sono venuti a conoscenza di questa sortita quasi due mesi dopo, quando il presidente stesso ne ha parlato durante un’intervista.
Diretti a nord dalla via Bankova, il gruppetto si è recato nei pressi di un ponte distrutto che segnava la linea del fronte ai margini della città. Era la prima volta che Zelensky vedeva di persona, e da vicino, gli effetti dei combattimenti. È rimasto sorpreso dalla dimensioni di un cratere scavato da un’esplosione lungo una strada. Quando si sono fermati per scambiare due parole con le truppe ucraine a un posto di blocco, le guardie del corpo di Zelensky «si sono spaventate», mi ha raccontato. Non c’era nessun motivo pressante per avvicinarsi tanto alle posizioni russe. Ma Zelensky ha detto che voleva semplicemente gettare un’occhiata e parlare con i cittadini che si erano ritrovati in prima linea.
Qualche giorno dopo, Zelensky ha fatto un’altra sortita, battezzata dai suoi uomini come «la gita del borscht». A un posto di blocco nei pressi della città, il presidente ha incontrato un uomo che ogni giorno distribuiva un pentolone di borscht alle truppe. Sono rimasti lì, in piedi, sotto il tiro dei cecchini e dell’artiglieria nemica, a mangiare una scodella di zuppa con una fetta di pane, a discutere di Unione Sovietica e di quello che erano diventati i russi dopo il crollo del vecchio regime. «Mi ha detto che odiava i russi», ricorda Zelensky. Poi il cuoco è andato alla macchina e dal baule ha estratto alcune medaglie che si era guadagnato al servizio delle forze armate sovietiche. Quella conversazione ha lasciato il segno su Zelensky. «Era la cosa giusta da fare», dice Yermak. «Andare a parlare con i cittadini per i quali noi lavoriamo».
Ma queste uscite sono state eventi rari. Pur ricevendo frequenti aggiornamenti dai suoi generali, ai quali dava indicazioni assai generiche, Zelensky non ha mai preteso di essere un esperto di tattiche militari. Il ministro della Difesa si è fatto vedere assai di rado al suo fianco. Come pure i vertici militari del Paese. «Il presidente affida a loro il compito di combattere», dice Arestovych, il suo consigliere in questioni militari.
Le sue giornate sono una sequenza di dichiarazioni, incontri e interviste, di solito espletate attraverso gli schermi di un computer o di un telefono. Le chiamate di cortesia gli fanno perdere tempo, come una sessione Zoom con gli attori Mila Kunis e Ashton Kutcher, che hanno raccolto fondi per l’Ucraina tramite una campagna GoFundMe. Prima di rivolgersi alla nazione, come fa tutte le sere, Zelensky seleziona gli argomenti con il suo staff. «Spesso la gente chiede chi è che scrive i discorsi di Zelensky», dice Dasha Zarivna, consulente per le comunicazioni. «Li scrive lui stesso e studia ogni parola».
Durante tutto marzo e i primi di aprile, Zelensky ha pronunciato un discorso al giorno, rivolgendosi ai capi di governo e alle istituzioni mondiali, dal parlamento della Corea del Sud alla Banca Mondiale, fino ai Grammy Awards. Ogni discorso era stato concepito per quel pubblico in particolare. Quando ha parlato al Congresso americano, Zelensky ha ricordato Pearl Harbor e l’11 settembre. Il parlamento tedesco ha sentito invocare la storia dell’Olocausto e del Muro di Berlino.
L’accavallarsi costante di impegni urgenti e di piccole emergenze ha talvolta un effetto paralizzante sullo staff del presidente, prolungando la sensazione del passar del tempo in termini definiti allucinogeni da un suo consigliere. Le giornate sembrano ore e le ore appaiono interminabili. La paura si intensifica solo al momento di prender sonno. «È allora che ti senti piombare addosso la realtà», dice Leshchenko. «Quando ti stendi sulla branda e pensi alle bombe».
Ai primi di aprile, lo staff del presidente ha cominciato ad affacciarsi sempre più spesso fuori dal bunker. Le forze ucraine avevano respinto il nemico al di là delle periferie della capitale e i russi spostavano gli effettivi per ingaggiare battaglia a est. Il 40° giorno di guerra, Zelensky è uscito di nuovo dal complesso presidenziale, stavolta accompagnato dalle telecamere. Con un convoglio di blindati si è recato a Bucha, una cittadina piuttosto agiata, popolata da pendolari, dove i russi avevano massacrato centinaia di civili.
I corpi erano rimasti disseminati in città, racconta Zelensky, «li abbiamo trovati conficcati nelle botti, rinchiusi nelle cantine, strangolati, torturati». Quasi tutti erano stati freddati con colpi d’arma da fuoco. Alcuni erano stati abbandonati da giorni lungo le strade. Quando Zelensky e i suoi hanno visto da vicino quelle atrocità, l’orrore si è tramutato in rabbia. «Volevamo immediatamente interrompere tutti i colloqui di pace», dice David Arakhamia, scelto da Zelensky per trattare con i russi. «Non riuscivo nemmeno più a guardarli in faccia».
L’8 aprile, mentre gli investigatori continuavano a estrarre cadaveri dalle fosse comuni a Bucha , i missili russi hanno colpito una stazione ferroviaria a Kramatorsk, nell’est dell’Ucraina. Donne, vecchi e bambini si erano raccolti a migliaia, con i bagagli e i loro animali, nella speranza di salire sui treni dell’evacuazione. I missili hanno fatto 50 morti e oltre un centinaio di feriti. Molti bambini hanno perso gli arti.
Zelensky è venuto a conoscenza dell’attacco attraverso una serie di foto scattate sulla scena e ricevute quella mattina. Ce n’è una che gli è rimasta impressa nella memoria. È quella di una donna decapitata dall’esplosione. «Portava questi vestiti colorati, che non riesco a cancellare dalla mia mente», dice. Quel pomeriggio lo accompagnava quell’immagine, mentre si recava all’incontro più importante della sua carriera. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, era arrivata a Kiev in treno per offrire all’Ucraina una corsia preferenziale per l’ingresso nell’Unione europea. Erano decenni che il Paese aspettava questa opportunità. Ma quando è arrivato il momento, il presidente non è riuscito a scacciare dalla mente il ricordo di quella donna, stesa a terra, senza testa.
Nel prendere la parola sul podio accanto a von der Leyen, Zelensky era livido in volto e ha faticato a spiccicar parola. Non ha neppure trovato la presenza di spirito di far riferimento agli attacchi missilistici nei suoi commenti. «Era uno di quei momenti quando senti che le braccia e le gambe fanno una cosa, ma la testa non ti ascolta», mi ha confessato in seguito. «Perché la tua testa è rimasta alla stazione, mentre occorre essere presente qui e adesso».
Quella visita è stata la prima di una sfilata di capi di Stato europei che hanno cominciato a recarsi a Kiev ad aprile. All’interno dei palazzi presidenziali non è consentito l’utilizzo dei telefonini durante le visite. Un affollamento di segnali telefonici, provenienti tutti da un unico luogo, rischia di segnalare a un drone nemico la localizzazione degli incontri. «E poi… booom», mi spiega una guardia, tracciando la traiettoria di un razzo con la mano.
Zelensky e i suoi passano ancora quasi tutte le notti nei bunker sotto il complesso presidenziale e vi tengono alcune riunioni. La ritirata russa, tuttavia, ha consentito loro di tornare a lavorare nei soliti uffici, che hanno conservato l’aspetto che avevano prima del conflitto. L’unica differenza è il buio. Le finestre sono oscurate dai sacchetti di sabbia. Le luci vengono spente per sfuggire ai cecchini nemici. Altre precauzioni sembrano assai bizzarre. Le guardie hanno staccato le lampadine all’interno di un ascensore che porta agli uffici presidenziali. Un groviglio di fili penzola dai fori delle luci e Zelensky e i suoi vanno su e giù al buio. Nessuno sa spiegare perché.
I giorni in cui mi reco negli uffici da solo, l’atmosfera appare più distesa. I custodi spolverano gli scaffali e cambiano i sacchetti di plastica nei cestini. La prima volta sono rimasto sorpreso nel trovare il metal detector e la macchina dei raggi X con la spina staccata nell’ingresso del palazzo, mentre un inserviente girava attorno con lo spazzolone. In seguito, mi è sembrato normale quando la guardia gettava uno sguardo distratto nella mia borsa e mi lasciava passare.
Ai piani superiori, la guerra sembrava lontana. Mykhailo Podolyak, uno del quartetto dei consiglieri più stretti del presidente, ha rinunciato a barricare le finestre del suo ufficio. Non ha nemmeno tirato i tendaggi. Quando mi ha invitato a raggiungerlo un certo giorno di aprile, ho trovato subito il suo ufficio: la targhetta con il suo nome era ancora sulla porta. «Scendiamo giù quando sentiamo le sirene d’allarme», mi spiega scrollando le spalle, riferendosi al bunker. «Ma questo è il mio ufficio. Mi piace stare qui».
Una tale fiducia nelle difese antiaeree di Kiev sembra quasi una reazione di difesa, scaturita da un atteggiamento di sfida e di diniego. Non c’è modo di intercettare i missili ipersonici che la Russia sta impiegando contro l’Ucraina. Il Kinshal — significa pugnale in russo — viaggia a cinque volte la velocità del suono e procede a zig zag per sfuggire alle difese antiaeree. È anche in grado di portare una testata nucleare. Ma Podolvak non si sofferma su questi dettagli. «Se arrivano e ci colpiscono, qui finisce tutto in un cumulo di macerie», mi dice. Non avverto traccia di paura nella sua voce mentre dice queste cose. «Che cosa ci possiamo fare?», mi chiede. «Noi continuiamo a fare il nostro lavoro».
Il fatalismo funziona come principio organizzativo. Alcune rozze precauzioni — come i cancelli barricati, i giubbotti antiproiettili — sembravano necessarie nella fase iniziale della guerra. Più tardi, quando è svanito il rischio dei commando russi all’assalto del palazzo, Zelensky e i suoi hanno capito che quelle difese erano tutto sommato inutili. Avevano davanti un invasore dotato di arsenale nucleare. E hanno deciso di non fuggire. A che serve nascondersi?
Oggi Zelensky lavora per lo più nella sala operativa del palazzo, che non si trova nei sotterranei né è fortificata. È una sala riunioni senza finestre e con una sola decorazione: il tridente, il simbolo nazionale dell’Ucraina, che risplende sul muro dietro la poltrona di Zelensky. Grandi schermi sono disposti tutt’attorno alle pareti e una telecamera è situata di fronte al presidente, dal centro del tavolo delle conferenze. Verso le 9 del mattino, il 19 aprile, i volti dei suoi generali e dei capi della sicurezza sono apparsi sugli schermi davanti a Zelensky.
Nel corso della notte, il presidente ha pronunciato un discorso alla nazione, per annunciare l’inizio dei combattimenti nell’Ucraina orientale. Poi ha voluto sapere dove gli scontri erano più intensi, dove le sue truppe avevano indietreggiato, chi aveva disertato, che genere di aiuti erano necessari e in quali punti erano riusciti a sfondare. «In alcuni punti a est, è un inferno», mi ha confessato più tardi quello stesso giorno, riassumendo con quelle parole il rapporto ricevuto dai suoi generali. «Una cosa orribile, per la frequenza degli attacchi, per il fuoco dell’artiglieria pesante, e per le perdite subite».
Per oltre un mese, Zelensky si è tenuto in contatto tramite messaggi con due comandanti ucraini. Erano gli ultimi difensori di Mariupol, una città di mezzo milione di abitanti che i russi avevano circondato sin dall’inizio dell’invasione. Un pugno di soldati resiste ancora nelle viscere di un’immensa acciaieria. Uno dei capi, il maggiore Serhiy Volynsky, della 36a Brigata marina, è stato in contatto con Zelensky per settimane. «Ci conosciamo bene adesso», mi dice Zelensky. Quasi tutti i giorni si sentono per telefono o tramite messaggi, talvolta nel cuore della notte. All’inizio, il soldato inviava al presidente un selfie che si erano fatti molto tempo prima dell’invasione. «Ci abbracciamo in quel selfie, come due amici», conferma.
L’attacco russo a Mariupol ha decimato la brigata. Zelensky mi rivela che solo 200 dei suoi uomini sono ancora in vita. Prima di rifugiarsi nell’acciaieria, erano rimasti sprovvisti di cibo, acqua e munizioni. «Si sono ritrovati in grandi difficoltà», ammette Zelensky. «Abbiamo provato a farci forza, l’un l’altro».
Ma c’è ben poco da fare, per Zelensky, da solo. L’Ucraina non ha a disposizione armamenti pesanti in grado di spezzare l’accerchiamento di Mariupol. A oriente, le forze russe sono in netto vantaggio. «Sono di molto superiori per numero», dice Yermak.
In quasi tutte le conversazioni con i capi di Stato esteri, Zelensky implora l’invio di armi che potrebbero fare la differenza sul campo. Alcuni Paesi, come Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda, le stanno inviando. Altri Paesi esitano, soprattutto i tedeschi. «Con la Germania la situazione è molto difficile», ammette Zelensky. «Si capisce che non vogliono rinunciare ai rapporti con la Russia». La Germania dipende dalla Russia per le forniture di gas. «Siamo davanti al pragmatismo tedesco», dice Zelensky, «ma ci sta costando molto caro».
L’Ucraina ha espresso chiaramente la sua frustrazione. A metà aprile, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier era già in viaggio per recarsi a Kiev quando l’ufficio di Zelensky lo ha pregato di rinunciare.
Non di rado la schiettezza del presidente può suonare come un affronto, come quando ha detto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che era il caso di sciogliere quell’organizzazione. Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, mi ha detto che sarebbe stato felice se Steinmeier fosse stato invitato a Kiev «in veste di amico». Ma Zelensky ha imparato che gli inviti in amicizia non portano in Ucraina le armi di cui ha bisogno. È così che Zelensky interpreta il suo mandato fondamentale. Non come stratega militare, in grado di spostare battaglioni su una cartina, ma come comunicatore, incarnazione vivente dello Stato, la cui capacità di attirare l’attenzione mondiale sul suo Paese sarà decisiva per la vita o la morte della nazione.
I suoi collaboratori sono tutti profondamente consapevoli di questa missione ma alcuni esprimono pareri contrastanti su Zelensky. «Talvolta sembra calarsi nel ruolo e parla come un attore che recita la parte del presidente», dice Arestovych, anche lui attore di teatro a Kiev per molti anni. «Non credo che questo ci aiuti». È solo quando Zelensky è sfinito che la maschera sparisce. «Quando è stanco, non riesce più a recitare. E allora dice quello che pensa», mi confida Arestovych. «Quando è Zelensky che parla, fa un’enorme impressione come uomo di grandissima umanità e integrità». Forse sono stato fortunato nell’incontrare il presidente al termine di una giornata lunghissima. Quasi due mesi dall’invasione russa, l’ho trovato cambiato. Nuove rughe sul viso, e non cerca più con lo sguardo i consiglieri quando deve rispondere a una domanda. «Sono invecchiato», ammette. «Tutta questa saggezza che non ho mai cercato, mi ha invecchiato. È la saggezza intrecciata indissolubilmente al numero delle vittime, alle torture che i soldati russi hanno inflitto alla mia gente. Il genere di saggezza», esita. «In tutta sincerità, non ho mai ambito a conquistarla a questo modo».
Mi chiedo se si sia pentito della scelta fatta tre anni fa, all’epoca del nostro primo incontro. Il suo spettacolo comico aveva ottenuto un grande successo. Nel camerino, risplendeva ancora dell’ammirazione del pubblico. Gli amici lo aspettavano dietro al palco per dare avvio ai festeggiamenti. Gli ammiratori si affollavano all’uscita del teatro per farsi una foto con lui. Si era candidato alla presidenza da soli tre mesi. Era ancora in tempo per rinunciare.
Ma Zelensky non rimpiange le sue scelte, neppure nel dramma della guerra. «Nemmeno per un attimo», mi dice nel palazzo presidenziale. Non sa come finirà questa guerra, né quale sarà il giudizio della storia sul suo operato. In questo momento, sa soltanto che all’Ucraina serviva un presidente di guerra. Ed è quello il ruolo che reciterà fino in fondo.
(Copyright @Time e Corriere della Sera per l’Italia, traduzione di Rita Baldassarre)
30 aprile 2022 (modifica il 30 aprile 2022 | 10:11)
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, 2022-04-30 11:26:00, Il racconto del giornalista di Time che ha trascorso due settimane nel palazzo del presidente: le ossessioni notturne, la paura di addormentarsi, il tentativo degli invasori di ucciderlo, Simon Shuster